Il 30 maggio 2014 il museo MARCA di Catanzaro inaugurava Permanenze 1974-2014, una mostra curata da Alberto Fiz che non è solo é stato un omaggio alla città di Catanzaro, ma è stata l’occasione per rileggere gli anni settanta valorizzando un’esperienza rimasta per lungo tempo nell’ombra.
Tale esperienza è stata realizzata da un gruppo di giovani e giovanissimi che nel 1974 confluirono nel Gruppo Mauthausen. Sono Antonio De Fabritiis (purtroppo scomparso nel 1997 a cui è dedicata la mostra) e Antonino Martelli, Franco Ferlaino, Pino Lavecchia, Franco Tolomeo, Paolo Pancari, Corrado Rotundo ed il sottoscritto, Pino Pingitore.
Professori (appena due) ed allievi, spesso poco più che maggiorenni, uniti con lo scopo di trasformare la loro città in un centro propulsivo di aggregazione intorno all’arte, concepita come elemento di dibattito e di consapevolezza al di là di ogni forma retorica o accademica.
“Con questa rassegna”, affermò Wanda Ferro, Commissario Straordinario della Provincia di Catanzaro, “il MARCA indaga le ricerche ormai storiche realizzate nel nostro territorio attraverso uno sguardo prospettico nuovo che consente di evidenziare l’assoluta attualità del movimento, come dimostra il confronto tra l’installazione del 1974 e quella realizzata oggi a quarant’anni di distanza.”
A ribadire il significato dell’operazione è stato Alberto Fiz, direttore artistico del MARCA convinto che “la scoperta dell’avanguardia a Catanzaro avvenne proprio grazie a questo Gruppo in grado di proporre un messaggio fortemente provocatorio in una città che aveva passato indenne gli anni sessanta.”
In quell’occasione il MARCA propose (la mostra fu accompagnata da un catalogo edito da Rubbettino) un nuovo allestimento “La violenza oggi…un’ipotesi di pace, l’installazione del 1974” che connotò il Gruppo, accanto a Permanenze, una nuova opera collettiva realizzata appositamente per l’occasione dove alla componente più strettamente ideologica, si è contrapposta quella più introspettiva.
Otto giovani temerari decisero di compiere a Catanzaro una vera e propria rivoluzione culturale, facendo dell’arte contemporanea uno strumento di carattere sociale e politico, ancor prima che estetico. “…Le proposte alternative sulle quali si basa l’azione del gruppo, nascono da una analisi etico-politico-artistica, dell’ambiente in cui si opera. (…). La nostra azione è alternativa per un pubblico che non ha mai visto niente di diverso del ‘piccolo formato impressionista’. È alternativa ‘di sistema – di lavoro’ per tutti gli artisti catanzaresi che vorranno, e speriamo siano in molti, prendere coscienza della loro vera funzione in una realtà che ha bisogno di loro…”, così scrivevano nel 1974 in A.G., il giornale artistico-politico-d’attualità stampato in ciclostile dove comparvero alcuni slogan caratteristici dell’epoca che assunsero un significato del tutto particolare in una città allora piuttosto isolata come Catanzaro, con una scarsa attività di gallerie ed un collezionismo praticamente inesistente. L’unico spazio espositivo era il Palazzo della Provincia di Catanzaro e l’Accademia di Belle Arti nasceva solo nel 1974.
Il Gruppo Mauthausen iniziò la sua storia già nel 1971 (allora si chiamava Gruppo IV Marzo) quando l’arte scese in piazza inserendosi in un contesto totalmente inedito e coinvolgendo il pubblico in un happening quotidiano dove la pittura andava a costituire il punto di partenza di un dibattito allargato. I nuovi operatori estetici, che esponevano i loro dipinti nel nuovo centro commerciale della città, la Galleria Mancuso, avevano l’obiettivo d’intervenire direttamente sul territorio attraverso un’operazione dal basso.
L’idea che l’arte fosse destinata a conquistare nuovi spazi è tipica di quegli anni fortemente ideologici dove le parole d’ordine erano comunicazione di massa e cultura di classe. Già nel 1967 a Torino Michelangelo Pistoletto realizzò alcune azioni collettive al di fuori della galleria e in occasione della mostra Con-temp-l’azione lungo le strade della città che uniscono le tre gallerie Sperone, Stein e il Punto, porta a passeggio un’enorme Sfera di Giornali coinvolgendo artisti e curiosi. Nel 1968 si svolge ad Amalfi la manifestazione Arte povera-Azioni povere promossa da Marcello Rumma e in quell’occasione Germano Celant (l’arte povera era nata ufficialmente un anno prima) scrive: “oggi è l’esigenza di identificarsi con l’azione e il processo in corso, la tensione ad attivizzare la dimensione psicofisica…agire e togliere energia, mescolarsi alla realtà, attraverso il proprio corpo e la propria dimensione mentale, sino all’annullamento totale…”
A Catanzaro la tribù dei giovanissimi sente il vento del cambiamento e si mette in marcia compiendo una rivoluzione silenziosa che merita di essere analizzata con scrupolo.
Dopo l’happening in città si passò, nel 1973, ad una mostra nel Salone del Palazzo della Provincia di Catanzaro intitolata semplicemente “Pittura, scultura, scenografia e fotografia”, dove si misero in fila le tecniche senza alcuna distinzione di sorta, equiparando la pittura alla scenografia. L’intendimento era quello di superare ogni retorica distinzione tra “high and low” creando un piano orizzontale dell’esperienza estetica. Ma il vero scatto in avanti si ha nel 1974 quando il Gruppo, finalmente al completo, si ripresentò al Salone della Provincia con un’opera collettiva supportata da un manifesto teorico ed un nuovo nome che passò dal neutro IV Marzo al ben più connotato e provocatorio Mauthausen con chiaro riferimento al famigerato campo di concentramento nazista evocante una delle maggiori tragedie dell’umanità. Un pugno nello stomaco per un progetto che partiva da un ossimoro: “La violenza oggi…ed una ipotesi di pace” dove il tema assunse differenti significati – da un lato le guerre e le distruzioni di un secolo tragico e dall’altra la violenza insita in una società opprimente, basata su ciniche logiche commerciali e sulla mortificazione dell’individuo. Di fronte a tutto ciò, l’arte doveva prendere posizione impegnandosi nella denuncia e nella trasformazione del sistema.
“Crediamo nell’azione e nel lavoro di gruppo come forza d’urto che sola può costituire il veicolo per mezzo del quale possa avere inizio un cambiamento radicale….” è scritto nel manifesto del Gruppo Mathausen.
Il contenuto eversivo dell’arte costituì il filo rosso di molte esperienze proposte prima e dopo lo spartiacque rappresentato dalla rivolta studentesca. Sul numero 5 di Flash Art Germano Celant pubblicò nel 1967 il celebre testo Arte Povera. Appunti per una guerriglia: “L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere, colpire” e conclude il suo pamphlet scrivendo “siamo già alla guerriglia.”
Con più ironia Pistoletto paragonò l’artista ad un animale in gabbia e tra il 1968 e il 1970 organizzò una serie di eventi con un gruppo denominato Lo Zoo. “La cosiddetta civiltà aveva relegato ogni animale nella sua gabbia. I meno pericolosi, più docili e sottomessi li aveva messi in grandi recinti comuni: le fabbriche, le case popolari, gli stadi sportivi (…) Gli artisti erano isolati nelle biennali di Venezia, nei teatri, nei musei e nelle manifestazioni organizzate. (…) Ora noi sappiamo di essere Lo Zoo,” affermava l’artista nel 1969. Quanto a Harald Szeemann, nel 1972 descrive così la sua Documenta 5, una delle manifestazioni più influenti dell’epoca: “La mia mostra è come il covo di un terrorista intento a distruggere l’autonomia dell’opera d’arte.” Non a caso la kermesse aveva come sottotitolo Befragung der Realität – Bildwelten heute (Interrogazioni sulla realtà-mondo delle immagini oggi).
A Catanzaro, insomma, sia pure con un po’ di ritardo, riuscivano ad emergere le grandi questioni che agitavano il sistema internazionale dell’arte. Il Gruppo Mauthausen, poi, ha avuto il merito di proporre, nel 1974, un’opera collettiva realizzata da otto artisti di cui nessuno ha diritto di primogenitura. E’ un fatto assai raro anche nell’ambito dei movimenti nati tra gli anni sessanta e settanta, dove le esperienze di gruppo non hanno mai sacrificato le singole individualità. In questo caso il modello fu più vicino a quello del mondo teatrale e in particolare alle sperimentazioni del Living Theatre.
L’opera che ne scaturì nel 1974 è un’installazione multimediale (allora si usava il termine intermediale) che affrontò il tema della violenza e soprattutto dell’alienazione con una serie di anonimi manichini collocati lungo un percorso frastagliato, dove non mancavano gabbie ed una trincea con il filo spinato. Lo spettatore era parte in causa di un processo emozionale che coinvolgeva la sfera fisica e sensoriale trasformando radicalmente il contesto ambientale. In tutto ciò s’inseriva la componente filmica con documentari originali sulla guerra del Vietnam e l’esplosione atomica di Hiroshima. Ma non bisogna dimenticare l’ipotesi di pace suggerita dal manifesto del Gruppo Mauthausen, che si sviluppa intorno ad una performance un pò hippie un pò new age, dove gli otto artisti s’immaginano come personaggi provenienti da luoghi e culture differenti che, intorno al fuoco, sulle spiagge della Roccelletta, inscenano la solidarietà ed il dialogo tra i popoli. L’evento venne documentato da una serie di diapositive proiettate nell’ambito dell’installazione accanto ai filmati storici di violenza e di distruzione, rimescolando ulteriormente gli accadimenti in un blob visivo assai complesso dove andavano a braccetto le paure e le speranze dei nostri giovani.
L’opera ha compiuto quarant’anni nel 2014 e proprio in tale occasione venne riproposta al MARCA per coglierne la stretta aderenza all’oggi. Accanto all’opera storica, fu realizzata una nuova installazione multimediale, anzi una “i-stanza”, come l’ha chiamata Franco Ferlaino, uno dei membri del gruppo, ironizzando sull’uso smodato della tecnologia.
Messe da parte le questioni strettamente ideologiche e politiche ci si è concentrati sulla componente più specificatamente introspettiva ed archetipale, secondo un “processo ri-creativo che trasfigura ogni cosa”. Al MARCA di Catanzaro fu proposto un viaggio nel cosmo che riguardava da vicino l’individuo ed il suo desiderio di libertà. Mauthausen 2.0, quindi, non aveva perso la propria carica provocatoria.