1982, Augusta Frisina. Testo catalogo mostra personale Galleria Mattia Preti, Catanzaro
Un artista che, formatosi nell’ambito della cultura neofigurativa, approda all’arte astratta e si proietta nell’informale con l’impeto delle ansie e delle insoddisfatte aspirazioni del nostro tempo, che è alla ricerca incessante di neoindicazioni d’avanguardia, non costituisce una sorpresa. Leggi ancora ...
Un artista che in chiave di lucida e disincantata visione imbocca livelli espressivi e dialettici così impegnativi e stimolanti in un panorama contemporaneo contrassegnato da acquiescente e sovente passiva riproposizione divulgativa di temi e di valori tradizionali, merita piena attenzione.
Sono opere che incidono come “graffi” e portano con sé echi di una sofferenza animosa, di una lotta impari e furiosa in cui si dibattono senza risposta gli enigmatici nodi del nostro tempo, l’ansia religiosa e palingenetica che si annida in fondo al cuore dell’individuo e la cupidigia divoratrice e insaziabile del potere. Non è pittura dell’assurdo né tenebroso sprofondamento del nonsense: è proiezione in tutte le direzioni del messaggio, quale si fa cogliere nell’irripetibile vicenda conoscitiva che ciascuno plasma per sé, cercando affannosamente la propria storia, la propria identità in uno slancio di energie vitali, nella consapevolezza del loro rapido accendersi e rifluire fino alla consumazione. Questa pittura, la cui evoluzione è un processo presumibilmente in fieri, si propone come slancio e sprigionamento di energia proiettata in vertiginoso ritmo verso un incommensurabile bersaglio, fuochi d’artificio tragici pronti a spegnersi come in una sequenza teatrale nel meteorico istante della deflagrazione finale.
Augusta Frisina
1983, Emilio Villa- Testo catalogo mostra personale Galleria Porto di Ripetta, Roma
Registriamo, sul registro della spirale cronologica delle inquietudini, delle mutevoli imprese dell’arte pittorica, la nascita appartata e la crescita di giovani artisti che ridiscendono nel vecchio scenario (un po’ antico e un po’ decrepito; Leggi ancora ...
Ecco, in questa esibizione, uno dei giovani operanti su questi incroci di territorio: conscio e severo, Pino Pingitore, che appunto coltiva il lavoro di quello che chiameremmo, invece che informale, la mise en abime della estensione. Diciamo che oggi volersi di nuovo addentrare in quell’embrione di collera e di trasgressione della pittura, può anche essere una decisione né facile né prudente. La recita che punta sul dissidio e sulle tenebre è destinata a rinnovare una grande provocazione, di testimonianza aggressiva, quindi drammatica (in ogni caso) accensione di desiderio. Per nuove collisioni, collusioni, e possibili nuove prospettive. Pingitore mette sul banco, mette in prova, e alla prova, in modo anche deconcertato, ma sempre vigilante e generoso, i termini linguistici della alterazione; la terminologia, cioè, di cui vuole impadronirsi, per vivere; cioè ancora, saggiarne la capacità di presa e di resa (cromatismi perentori e tonalismi studiati, inzaccheri e velature, spruzzi e fanghi iridescenti, sempre come segnali di rissa), o verificarne la singolarità, o trarne i germi, addirittura i “batteri”, di una attesa più aperta, più rarefatta, più illuminata col tempo; ed è esperimento, sperimentazione, procedura o processo, del controllo organico sui mezzi e sui connotati, cioè sulle discipline maggiori, autonome, della “pittura rivelata”, o pittura come “svelamento” (catturando nel colore-evento, “eventuale”, nidi di oscuri precipizi) secondo la commistione e la separazione simultanee e coordinate della Immagine Maggiore; inchiesta agitata sulla vita e sulla morte dell’Omogeneo, iniziativa del Somnium Maximum, resistenza all’aggressione delle cifre e degli schemi mimetici e dei segni della vita minore e della natura oggettiva; revisione delle tematiche concentrate e contaminate nello strazio del mondo avvilente e disgregante: cercando appunto allora (trovare non è indispensabile) i temi, in modi di segnalazione libera, di scrittura policroma, i momenti diradati, le minacce, le frange sinuose di quella pittura che si addice al prodigio inventivo, creativo e ai suoi sensi forse oscuri, ma operanti, attivi, di presenza, scabrosi ma colmi di testimonianza; dove si testimonia proiettandosi la ragione stupendamente irreale (dicevamo gnosi) della libertà mitigata e della qualità dell’anima estesa in tòpos, in intima topografia; articolazione e svincolo dell’esteso tedio, del precario esistente. È in questa linea che opera, come manifesto ideografico del discontinuum e dell’indeterminato, in tanta modestia preliminare (siamo sulla soglia, sull’avvio, sull’intento anticipato), con qualche ancora riserva e trepida, l’attività di Pino Pingitore. Che pur così giovane, ha dietro le sue spalle anche la parabola scossa di altre audaci sperimentazioni, e un gioco numeroso di riflessi e tentazioni, prove inserite nel corso generale della informazione. Anche il suo colore (toni baluginanti, timbri fragorosi o fiochi, campi di squarcio o di segnaletica, spesso anche veementi) di cui possiamo accusare, o accettare, quasi certa giovanile grevezza e certa improvvida prolissità di gergo, smarrimenti e esuberanze di ripiego, contiene, esibisce, tuttavia i suoi irrimediabili acidare, le sue turbe, le sue temperature benigne e convinte, le sue inquinate (pregevolissime) dissolvenze: cioè la specie liberata, il fervore allarmato della sua buona visuale, le orge delle sue decifrazioni. Il suo migrare in una regione evoluta, è soluzione e misura di spirito, è negazione di meccanica, vitalità e scuotimento di processi, di temperature, di climi, di orizzonti sensitivi. Così, con buona persuasione, Pino Pingitore elabora la sua minima luccicante elegia, sgargiante anche, e così carica di metafora iniziata, constatata, contrastata, tra riverberazioni e tantaliche ansie: di un pittore che si allena al suo futuro, e pronto ai colpi futuri delle grandi modifiche.
Emilio Villa
1984, Giuseppe Selvaggi. Testo mostra personale, la ricerca e l'attuale nei quadri di Pino Pingitore. Palazzo della Provincia, Catanzaro
LA RICERCA E L’ATTUALE NEI QUADRI DI PINO PINGITORE.
Di Pino Pingitore non riesco a ricordare il volto, la voce. Buon segno di lui come pittore, perché nell’azione della memoria mi è rimasto invece la girandola di un suo quadro. Una girandola narrante. Leggi ancora ...
Per questa sua mostra nella propria regione nativa va fissato, come punto essenziale e come un principio di autonomia di Pino Pingitore, l’adesione e quindi l’interpretazione che l’artista riesce a dare del suo tempo. Cioè Pino Pingitore intuisce e traduce in pittura – ed è questa sua capacità di traduzione in pittura che conta – l’azione in atto nella civiltà della sua generazione e di quelle con la sua confinanti. Mi spiego. Pino Pingitore parte, per i suoi quadri che risultano interiormente compiuti, da un racconto, che può essere anche immagine lirica di un volto o di un paesaggio. Il momento, scattante e realizzatore, di questa partenza appare figurativo. Anzi con una intonazione persino romantica. Il volto, il paesaggio sono carezzati. Nella medesima azione la freccia interiore dell’artista dissolve il contenitore figurativa per frantumarlo in dissolvenze, per lo più lineari e comunque geometriche. Abbiamo, nei suoi quadri, opere che fanno di più apparire il momento figurativo ed opere in cui emerge la frantumazione che, per comodità espressiva, chiamiamo verso l’astrazione. Quando Pino Pingitore riesce a far ravvicinare i due momenti, che sono insieme tecnici e di pensiero, il suo quadro risulta ammirevole e ricordevole. Cioè, fa segno. Pino Pingitore questo processo fortemente attuale lo ha recepito, ed è capace di portarlo avanti.
È lo stesso processo che fa della musica attuale (ad esempio la colonna sonora del film Flash Dance) opera d’arte di intensa presa sulle generazioni nuove e su ogni giovane di mente, allenati alla ricerca. Ecco, a Pino Pingitore va augurato di piegarsi, sino al dolore creativo più estremistico che confina con la gioia di esistere, su questo suo arco, su questa ricerca. Ed andare avanti, tentando l’esatto punto d’incontro e di annullamento reciproco del racconto narrato e del racconto intuito, ottenendone ciò che alla pittura sta chiedendo la meravigliosa avventura dell’arte moderna. La capacità aperta (solare) e meditativa (sotterraneo) della cultura mediterranea rende pronto Pingitore a questa operazione.
Perciò, ancora arrivederci nei suoi quadri.
Giuseppe Selvaggi
1985, Tonino Sicoli. Testo mostra Forme di una pittura senza forma, Palazzo Di Tocco, Catanzaro
FORME DI UNA PITTURA SENZA FORMA
L’arte in Calabria in questi ultimi anni ha trovato un insperato sviluppo che ha senza dubbio riaccorciato le ataviche distanze fra Nord e Sud. La vitalità degli artisti delle nuove generazioni unitamente al diffondersi di iniziative culturali di un certo respiro, ha restituito alla Calabria un ruolo meno marginale anche nell’ambito della cultura artistica nazionale. Leggi ancora ...
Cosenza, maggio 1985 Tonino Sicoli
Vivendo le situazioni conflittuali di una provincia emarginata ma ricca di fermenti sotterranei, alcuni di questi artisti hanno avviato un processo di emancipazione, pigliando le distanze da quel confuso sottobosco intellettuale dal quale un tempo si fuggiva solo emigrando. Queste isole di intellettualità sono il segno di un fenomeno endogeno e implosivo che investe gli ambienti artisti locali: non solo si cercano confronti con le situazioni extraregionali, ma si va attuando anche una paziente opera di ripensamento e di revisione del proprio ruolo all’interno della realtà di appartenenza. La ricerca di una propria identità e di una professionalità diventano gli obiettivi a cui tendere nell’azione, che non è più rivolta ad una preoccupazione soltanto poetica, ma che mira a realizzare più favorevoli condizioni e occasioni di lavoro intellettuale. In questo modo anche la ricerca artistica viene ad avvantaggiarsi di quei riferimenti critici fino ad ora assenti; al solipsismo si va sostituendo l’esigenza di un confronto con le esperienze esterne, così come la presunzione di originalità cede il posto alla riflessione sul proprio operato all’interno di contesti più ampi e in riferimento alle tendenze attuali dell’arte. Anche esperienze maturate in ambiti culturali più tradizionali, fuori dalle dissacrazioni dell’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta, possono oggi trovare una loro lettura alla luce di un diffuso ritorno alla pittura: il gusto per l’espressione e per il gesto, tipici del pre o extra concettualismo, ritrovano una corrispondenza nella nuova soggettività e nella manualità emotiva della Nuova Pittura. Se le giovanissime generazioni guardano al futuro senza i condizionamenti di un passato personale, nella generazione precedente si manifesta un consapevole atteggiamento di ottimistica rifondazione del proprio lavoro intellettuale ed artistico. Le speranze deluse, le attese messianiche e le frustrazioni di ieri diventano materia prima per le spinte progettuali, per l’impegno operativo di oggi e per le prospettive di lavoro futuro. Là dove molti compagni di strada della stessa generazione hanno mostrato stanchezza risucchiati dal provincialismo di ritorno, alcuni coraggiosi tentano la conquista non già del successo ma del semplice diritto ad esistere come artisti e come operatori di cultura. La situazione artistica che segnaliamo con questa mostra vuole proprio cogliere un nuovo fermento a Catanzaro, che certo si è rivelata in questi anni centro vitalissimo della vita artistica regionale e nazionale.
I due artisti che proponiamo testimoniano questo processo di crescita che investe anche le generazioni nuove. Alessandro Mazzitelli e Pino Pingitore sono presenti sulla scena artistica della loro città fin dagli anni Settanta (e per Mazzitelli anche prima), promuovendo la formazione di gruppi e animando le cerchie artistiche locali, ancora fortemente legate ad una visione tradizionale dell’arte. Tagliati fuori dai grandi flussi e momenti dell’arte di quegli anni, i due operatori di Catanzaro hanno condotto in mezzo a mille resistenze e difficoltà, la loro battaglia contro una mentalità vigente e contro un clima culturale di strapaese.
La loro ricerca tutta informale ha costituito un chiaro segno di rottura con la tradizione figurativa; la sperimentazione di materiali extra pittorici ha rappresentato il tentativo di rapportarsi in modo diverso dell’esperienza dell’arte. Oggi l’incontro con la pittura neo-informale carica di valenze nuove una ricerca che muovendo dal gestualismo di Vedova e dal dripping di Pollock, tocca il tachisme nervoso di Kerkeby, il decorativismo di Mesciulam e la libertà di intarsiare le tele del più recente Ontani.
Mazzitelli e Pingitore sono gli elementi di una situazione emergente a Catanzaro, il segno augurale di un processo di trasformazione che investe la realtà complessa e articolata (e contraddittoria) della Calabria, un ponte ideale per continuità d’impegno fra un passato difficile e un futuro migliore.
1987, Tonino Sicoli. La pittura naturale di Pino Pingitoore, Arte e cronaca, Anno II N. 6
LA PITTURA “NATURALE” DI PINO PINGITORE
La pittura destruttura la forma. Come in una decostruzione verso il livello zero della figura ovvero al limite di un ambito non figurativo, Pino Pingitore si immerge nell’elemento-colore alla ricerca di una condizione magmatica-originaria e totalizzante. Leggi ancora ...
Se l’arte informale in genere non rappresenta nient’altro che la propria organizzazione formale, c’è da tener presente che spesso funziona come pretesto proiettivo alla pari di una tavola do Rorschach. La proiezione psicologica si fa così processo linguistico che, abbandona ogni pretesa di arte esatta e verisimile, trascrive i discorsi dell’inconscio nei percorsi schizoidi e irrazionali di una immagine disobbediente e indisciplinata. Quanto caso giochi in questa pittura di Pingitore non importa ai fini di una sua possibile lettura in chiave linguistica, giacché una certa imprevedibilità compete all’aspetto creativo e innovativo di ogni linguaggio. Ma ciò che è casuale viene assorbito da una condizione di “necessità”, ovvero da una pur esistente strutturazione che fa da supporto sistemico ai colori, ai segni e a tutti quegli elementi pittorici “in libertà”. Opera “aperta”, dunque, ma fortemente dotata di un ordine “interno”, autogenerato dalla stessa immanenza di una pittura tutta in experiri. Con un ordine che viene definito “sul campo”, istante dopo istante, gesto dopo gesto questa pittura si snoda e si consuma nel suo stesso esercizio: nata per essere senza schemi finisce per inventare ogni volta strutture sottili e quasi impalpabili, equilibri dinamici ma dosati, armonie complesse. La superfice si modula sotto l’espandersi di una materia pittorica che cerca una sua provvisoria disposizione in grado di condensare e racchiudere un irripetibile hic et nunc. Pino Pingitore pratica una pittura organica, non naturalistica ma “naturale”, che vive e cresce come un organismo dotato di bioenergia propria; una ricerca informale che esplora una nuova realtà in formazione, un’arte genetica che dalla natura attinge procedimenti di crescita e principi di sviluppo. Può capitare allora di scoprire che il progetto della pittura somiglia molto al progetto della natura e che l’informale ha punti di contatto con la genesi stessa della forma. Tonino Sicoli
1989, Toti Carpentieri. Testo catalogo mostra personale L'evoluzione dei segni Palazzo della Provincia, Catanzaro
L’EVOLUZIONE DEI SEGNI
In quella infinita, e mai risolta, dialetticità tra forma ed informe si inserisce anche una non sempre facile distinzione del segno dal segnale, e non solo nella ricerca di una rivendicata priorità, ma quant’anche nella determinazione stessa dei contenuti e del loro connaturato percorso. Leggi ancora ...
La “sagoma“ come segnale con la sua organica irriconoscibilità, ci appare – pur nel riproporsi di un’articolazione talvolta anche scenica - dapprima quale “immaginario scritturale” e quindi quale momento di decifrazione linguistica e formale. Questo vuol dire che il segnale – ovvero il segno - appartiene allo spazio dell’immagine, secondo una sorta di effetto iconico da evidenziare e su cui riflettere. E il segno si tramuta in gesto ritornando ad essere segno – ma diverso -, nella variabilità delle direzioni e delle traiettorie. Siamo al nuovo segnale. Pino Pingitore va, quindi, alla ricerca della forma all’interno di un’astrazione che si proietta nell’informale, secondo articolazioni omogenee ed organiche, nelle quali il colore assume la connotazione di una traccia a livello espressivo. E ci ritornano alla mente ulteriori emergenze di sviluppo del linguaggio informale, tra connessioni e divergenze, avvalendosi di una materia pittorica sovente distribuita per pennellate spesse e dense, secondo un “furore” espressionistico di notevole dinamicità. Appare determinante, allora, la forza del “gesto” e con essa, quella della materia: sempre ricca e talvolta lacerata, in una progressione emozionale e fenomenica che sembra spostarsi verso la sensorialità (o fors’anche sensualità?). Ma nell’evoluzione del rapporto linea-superficie, il giovane artista calabrese conferisce al segno (ancora una volta e sempre anche “segnale”) una sorta di agitazione, assolutamente non mimetica, che si visualizza in grafismi sciolti in cui il raccordo tra emergenza ed impianto (texture) e fondo, fa sì che alla materia si possa assegnare l’entità della forma – il groviglio grafico e la sua gravità -. Pingitore organizza, in tal modo, i suoi segni (il furore astratto espressionista, o la meditazione del colour-field painting) facendoli divenire viluppi ad alto valore allusivo, densi, grumosi e perfino “figurali”. E il nero intrigante si insinua tra le impronte in quella che si può definire come “spontaneità meditata”, e ancora “automatismo”, ovvero inasprimento del gesto-segno, cancellando quasi il colore e segnando e disegnando, fino ad un’esasperazione espressiva che perviene – talvolta – anche al dramma. La gestualità violenta ed immediata di Pingitore, fa sì che nella lettura dell’opera ci si sposti, con facilità, verso l’emozione ed i fenomeni – certe contemporanee presenze tedesche in un ambito più pertinente all’evocazione della figura -, nell’evidenza di un vitalismo sempre leggibile. Accade poi che il gesto si liberi, anche dalla necessità dell’urlo, rivitalizzandosi secondo rovesciamenti progressivi, nell’accentuazione di ogni possibile contrasto e nel rispetto di quelle che ci appaiono essere delle “rigide armonie”. Il colore vivifica il gesto, facendogli assumere una consistenza solare e sensuale, secondo tracciati anche irregolari, accumuli e particolari e rarefatti nuclei energetici. Siamo, nuovamente, al concetto di pittura come evoluzione. L’immagine nascosta e misteriosa spinge il pittore ad una processualità che identifica l’azione con l’evento, ovvero come disvelamento di ogni probabile “mistero”. E si determina, così, un’impaginazione per dissolvenze, attraverso una frantumazione che ritorna ad essere segno. Come in una sorta di recupero archeologico del muro e della sua materialità, il segno riprende quella sua capacità di scandire lo spazio, in un gioco di prove e provocazioni sempre all’interno di un’informalità, mai abbandonata, e ritorna a dominare la scena, in una vorticosità cromatica che si definisce per tagli e salti, secondo un’erraticità ora disarticolata e decostruita, ora rigorosamente architettata. Ed è a tal punto che Pingitore fa riemergere la “sua” necessità del segnale come vocazione, nel rispetto della metafora e di una necessaria decifrazione del segno. La frantumazione, ci porta allora all’emergenza della elementarietà geometrica, in un coagularsi di macchie, segni infuocati, livide presenze, spezzate spirali e nuovi neri catramosi. Siamo lontani dalla “intricata matassa” e la “forma” diviene esplicita, anche nella definizione del segno (contorno, limite, bordura) che ci rende manifesto il valore iconico ed un connaturato carattere “mitologico” quasi del tutto dimenticato. Pino Pingitore riscopre – in tal modo – il valore storico del suo segno (ormai lettera e, nuovamente, segnale) in una scansione spaziale che, ancora una volta si ridetermina come “pittura”. Forse siamo ad un neo-informale, che – però – non è revisione di tematiche, ma evoluzione e decifrazione del segno medesimo, quasi in una direzione “ellittica” a cui non pare del tutto estraneo il fascino di un catalano di nome Tàpies. Toti Carpentieri
1990, Teodolinda Coltellaro. Testo mostra Tropea
PINO PINGITORE: LA DIMENSIONE GENERATIVA DEL SEGNO.
L’esigenza di indagare a fondo, fino quasi all’angoscia, la propria fenomenologia espressiva; l’ansia, quasi febbrile, di individuare la qualità più pura delle proprie stratificazioni esperenziali, spoliandole, da soffocanti sovrastrutture convenzionali, consapevole che esse finiscono con lo sminuire, spregiudicandola, l’efficacia comunicativa del proprio linguaggio pittorico: sono indizi della sottile e insistente inquietudine conoscitiva che fermenta l’operatività di Pino Pingitore.Leggi ancora ...
E il colore, nelle sue opere più recenti, costruisce e articola nuove astensioni dimensionali, segnando l’avvio evolutivo di un’organizzazione morfologica del tessuto pittorico che ne svela la sotterranea, inconfessata, vocazione spaziale. Da un intenso e ininterrotto dialogo tra colore e forma, tra segno e materia, scaturiscono nuove e affascinanti modulazioni espressive che esaltano le potenzialità e le qualità plastiche di una superfice fatta di profondità. I suoi segni palesano una insospettata energia formativa, essi strutturano, a diversi livelli, le masse cromatiche, rendendole vibranti di passaggi luminosi e determinando spessori tridimensionali, spazialità di cui la densità, la potenza della stesura, la rarefazione delle velature, sono fondamento e condizione d’esistenza Teodolinda Coltellaro
Egli, in un continuo risalire fin dentro i più riposti recessi della propria esperienza, sente impellente, inevitabile, il bisogno di azzerare, di annullare quello strato di valori feticcio, di sterili consuetudini che impediscono alla propria natura più autentica di estrinsecarsi.
Con gesto imperioso e lacerante libera la propria pittura da memorie, sedimenti figurali, referenze culturali che nell’iter evolutivo della propria storia artistica sono ormai scaduti di attualità, offrendo, in tal modo, al proprio fare forza di verità assoluta.
Il suo gesto ora scava la materia pittorica, le sue virtualità, la sua pulsante fisicità, alla ricerca del segno: per rintracciarne l’epica nascita dalla cruda corporeità delle cose; per narrarne, a se stesso e agli altri, la formazione primigenia; per ricomporre la partitura di quel suo canto aurorale che ha attraverso il tempo.
Un risalire verso il nucleo più vivo, segreto, del proprio creare per tentare di identificare e circoscrivere un’entità topografica, un luogo – il luogo – (quasi una dimensione metafisica) da cui il segno stesso trae la sua origine. Un segno che cancella e nega (la X di alcuni lavori), ma che non smette per questo di imbastire discorsi, di parlare; un segno che è metafora in cui si consuma il qui-ora, il quotidiano oltre il quale si estende l’irriducibile vacuità del reale.
Dell’ineluttabile tragicità che costituisce l’esistenza, in cui l’uomo è testimone impotente di un nulla che lo sovrasta e agisce suo malgrado, Pino Pingitore ha dolente coscienza. Ma, la sua posizione dialettica, benché
negativa (che nega), non è nichilista. La sua pittura, infatti, apre ad uno spiraglio di salvezza, ad una volontà positiva e vitale di creazione: una volontà insieme gnoseologica ed etica. Il suo operare propone un destino diverso, in sé meno tragico, dei segni che si celano nel substrato dell’essere: un destino che si attua nella calma certezza che ad una fine segue sempre un nuovo inizio; che ogni cumulo di macerie porta in sé il seme della rinascita. E, ogni rinascita, anche se limitata in uno spazio e in un tempo, rappresenta la chiave del Tempio, necessaria per accedere ad orizzonti inesplorati, ricchi di nuove processualità, di combinazioni possibili, di accadimenti estetici direttamente relazionabili all’inesauribile energia interna del segno, alla sua capacità di rigenerarsi e di trasformarsi incessantemente. Un segno in cui la vita e la morte arrivano a conciliarsi; il negativo e il positivo giungono quasi a coincidere e, attraverso misteriosi cammini d’attrazione, a coesistere nella cifra dell’opera. E, l’opera è spazio dinamico, in costante definizione, in cui si articolano, si connettono, secondo complessi legami sintattici, i segni stessi: irrinunciabili ritrascrizioni dell’ininterrotto fluire del tempo. Ogni opera è un frammento in questa ritrascrizione, cui sottende l’elaborazione e la graduale conquista di un proprio alfabeto la cui prassi generativa non elude discordanze, contraddizioni, pentimenti, dubbi poiché da essi, il più delle volte, si origina l’oggetto d’arte. La tela bianca non è più una trappola. È una superfice estremamente sensibile, quasi una seconda pelle, percorsa da forti tensioni espressive; una superfice su cui verificare le seduzioni semantiche del segno. Da un universo inizialmente asemantico, informale, affidato all’essenzialità del gesto e alla scabra e tormentata nudità della materia, nasce, quindi, un segno che allude alla concretezza e alla chiarezza della forma, che appare disponibile alla significanza, alla scrittura pittorica. Un segno, quello di Pingitore, che è segnale ma, è anche simbolo; che non rinuncia alle implicazioni simboliche di geometrie elementari, modulate secondo una ritmica spaziale fatta di strappi, pause, oscillazioni, da cui anche il colore emerge con una propria, imprescindibile, valenza significante.
1991, Maurizio Vitiello. Testo mostra personale Attraversamenti memoriali e mutazioni dell'immaginario, Museo Civico, Taverna
Che senso ha dipingere oggi?
Con le nuove tecnologie, elaboratissime e di avanzata predisposizione, sembrerebbe innocua, banale, “segnata” dalla storia delle macchine l’esercitazione pittorica.
Sembrerebbe, appunto!
Ma le esercitazioni come gli esami non finiscono mai.Leggi ancora ...
Si può certo produrre un’immagine utilizzando tastiera e penna ottica e averne copia su carta lucida. Ma quanti limiti! E l’originale non c’è più… e si sa bene che il fascino dell’opera unica non è sostituibile. Il culto contemporaneo dell’immagine prevede linguaggio asciutto per carichi di senso e densità di contenuto. E pur privilegiando il responso elettronico che codifica un pellicolare effetto iconico, frutto di studi computerizzati e di selezioni grafiche, resta all’artista il primato dell’evento con la realizzazione, con materiali “altri”, desunti da una pratica secolare, di una matrice pittorica. Ovviamente, l’originale tecnologico e l’originale pittorico mutuano due mentalità. Se il primo è più moderno, l’altro conferma di essere classico. E non c’è moderno se non c’è passato, se non c’è classico. Fin quando, allora, ci sarà un classico tutto il moderno seguirà. Pino Pingitore preferisce usare tele e pennello… il computer qui è lontano… L’artista schematizza movimenti, riduce il gusto espressionistico del gesto in sequenze coloristiche di derivazione neo-informale, ma, soprattutto, informa un elaborato concerto di mutazioni nutrendolo di variazioni minime, fertili. Il ripasso su sagome, segni, segnali e segnacoli accenta una felice continuità grafica. Il taglio geometrico e la sigla informale s’offrono tra echi vitalistici ed impressioni di colore, pur tra connotazioni ardite e cortine di mascheramento. Il fecondo lavoro di Pino Pingitore vive su queste tensioni sostanziali, che contribuiscono a regolare un equilibrio pittorico. Un’armonia, insomma, che sottolinea un appagamento di contrasti. Il nostro contemporaneo artistico rilegge più volte la memoria e la memoria libera la fantasia, ma ne ordina il mistero della nascita. Si riusciranno mai a comprendere le mille sfaccettature da cui emergono i voli della libertà più spinta o gli intrighi più criptici dovuti alla fortuna della vitale fantasia? E Pino Pingitore rilegge i limiti e le periferie, le emozioni e le allusioni, le accentuazioni e le iperboli evocative che la memoria gli suggerisce. Pensiero e ricordo sono tradotti, convenientemente, in pittura tramite il codice preferito. Il codice agitato, reso estremo, è esaltato da riferimenti e da riflessioni. Pino Pingitore insinua nel dato pittorico l’attesa, coinvolgendo l’intera superfice della tela. La tela respira il dubbio, mai la certezza di precisazioni estetiche finite. Ogni lavoro presuppone il seguito. Ogni lavoro è ritagliato come tessera di un tracciato estetico. S’avverte una forza che non osa esprimersi del tutto. Si compiace di vivere il momento e lo spazio dell’attesa e nel margine estetico che profila rende un clima di parzialità. Qui s’indica un processo di parzialità per attestare che la decifrazione linguistica e formale troverà ampia soddisfazione e completa valenza nella perseguita traiettoria d’intendimenti, che vede quadro dopo quadro alimentare immagini di una rete di raffinazione del senso della metafora. Questa vocazione rende emergente, ad ogni passo pittorico, il disegno di estendere idea e segno in un’articolazione di provocazioni. È un’esasperazione dell’attesa, in fondo, per riproporre l’emozione oggi ed il giorno dopo. Quest’informale crea speranze, interrogandosi sul presente. In un abile gioco di rimandi il tempo è conquistato per essere sponda di una lunga traccia di un’idea, che s’attrezza d’incanti. Maurizio Vitiello
1992, Teresa Macrì. Testo mostra personale L'opera al nero. Cafè Bagarre, Lamezia Terme (CZ)
L’OPERA AL NERO
Il nero come misteriosa ricerca di armonia o come inquieto percorso spirituale. Il nero assoluto, primo stadio del ciclo alchemico o simbolica evidenziazione di riflessione interiore. La sua monocromia seducente permette l’animazione ideale di poliedrici percorsi consentendo di cavalcare qualsiasi sentiero artistico.Leggi ancora ...
Il nero, ideale di trasmigrazione interiore, è il presupposto operativo di Pino Pingitore, la sua assolutezza e la sua infinitezza sembrano condurlo in una impetuosa indagine lavorativa che viene corroborata dalla commistione di supporti rudemente materici o dalla scansione tonale delle qualità insite nel colore stesso. L’assunto ideativo che sembra muovere l’operare di Pingitore è la realizzazione sintetica e scarnificata delle emozioni che lo inducono a dipingere. La stesura monocroma depura la tela da qualsiasi pathos emozionale benché sia proprio “la forza delle emozioni” che Pingitore intende provocare con una stratificazione pittorica pura in cui il ritmo, la costruzione astratta, matematica, la ripetizione o la disgressione tonale diventano i segni e i simboli di tale inclinazione. La monocromia è tendenzialmente animata da elementi dinamici, o meglio da espedienti, che movimentano la pacatezza del colore. L’assemblaggio materico, sia esso lo scarto industriale o il reperto artigianale logorato dal tempo, l’inserto geometrico di fili segmentati di rame o di ottone, rompe la staticità pittorica della campitura in nero che, a questo punto, è solo quinta scenica su cui si intersecano elementi extrapittorici. Il nero, come spazio espressivo, riappare nelle composizioni monocrome in cui la ripetizione della figura del quadrato in riduzione scalare insegue albersianamente una illimitatezza mentale quasi infinita. Teresa Macrì
1994, Andrea La Porta. Testo catalogo mostra personale Scrigni. Spazio Immagine Arte Contemporanea, Foligno (PG)
SCRIGNI
Le opere più recenti di Pino Pingitore hanno un titolo emblematico: “Scrigni”. L’artista pare voglia custodirvi la memoria più riposta della pittura, i momenti preziosi di una poiesi che non ha mai smarrito la forza spirituale dell’astrazione. Leggi ancora ...
Andrea La Porta
Guardiamole, queste partiture: certo, sono schematiche, alcune sembrano condotte col tiralinee tanto le zone della superfice risultano squadrate; eppure tendono a racchiudersi su se stesse, a determinare un andamento a labirinto; e questo, non dimentichiamolo, è pur sempre una figura della complessità (appunto, dell’abbraccio, dell’amplesso). E che dire del colore? Steso in modi impeccabili, si affida ai bruni, agli aranci, germinando le combinazioni più sofisticate e rare, anche se pur sempre intonate ad una essenzialità di fondo.
Gli Scrigni, come è facile immaginare, sono metafore, limpide, cristalline; ma anche denominazioni, disegni di ambienti, di contrade, per usare un termine di Heidegger a me tanto caro; essi scaturiscono infatti dalle Architetture: “Architetture lontane e Architettonico e rosso” sono i titoli di due quadri del 91 e del 90. A guardar bene, tutti i quadri di Pingitore sono architetture, grafici ambientali. Ermetici quanto scavati, gli ambienti emergono da abissi sprofondati nel buio ed illuminantisi come per incanto. È la luce, il raggio della luce, la marca distintiva di queste opere: ferite luminosissime squarciano veli di oscurità che si addensano per poi improvvisamente sparie.
Ciò che il quadro offre allo sguardo è l’inquietante interrogativo sull’oltre, sul dopo, sul nascosto eppur presente. Opere di grande impatto senza essere mai accattivanti o accomodanti; di una razionalità estrema senza essere mai fredde o puramente geometriche; astratte senza perdere mai del tutto il sapore caldo della figurazione sensibile; luminose senza fragore abbagliante come solo certi maestri del ‘600 hanno saputo restituire il senso della luceità. I cunei di luce che attraversano le tele ubbidiscono alla logica del riverbero, e rendono al presente ciò che il presente forse non ha più. Di qui il carattere di apertura e insieme di chiusura, di custodia, di queste opere. Raccontare il mondo da un angolo, spiarlo dal fuoco dell’immaginazione, ricostruirlo con il procedimento dell’anamnesi, nella consapevolezza che il passato non è soltanto il nostro essere stati ma ciò di cui oggi siamo intessuti.
1995, Enrico Mascelloni, dal catalogo della mostra Il rasoio e la spazzola. San Mango d'Aquino (CZ)
IL RASOIO E LA SPAZZOLA
…La ricerca di Pingitore è slittata dalla superfice dipinta all’assemblaggio di tavole povere e visibilmente cariche di vissuto. Leggi ancora ...
Enrico Mascelloni
1995, Ernesto Lupinacci. Dal catalogo della mostra Sacralità.
SACRALITÀ
… Pino Pingitore, con la sua ultima ricerca materica, tesa ad analizzare la struttura della pittura si avvia verso un’interessante maturazione artistica, solida di equilibrati dosaggi compositivi.Leggi ancora ...
Ernesto Lupinacci
In modo particolare le ultime opere, di matrice poverista, non nascondono le suggestioni evocate dall’opera di Tàpies e si inseriscono pienamente nella ricerca neo-pittorica contemporanea.
L’utilizzo di materiali semplici quali il legno ed il piombo, composti ed amalgamati mediante dosate campiture nere e rosse, contribuiscono ad aumentare la carica espressiva e comunicativa della composizione…
1996, Gianfranco Labrosciano. Testo monografia, Edizioni Gradiva
Più che nelle divergenti possibilità di una cultura informale declinabile all’infinito, Pino Pingitore opera sulla strutturazione linguistica e l’analisi pittorica all’interno di un campo, quello informale, appunto, ma considerato per così dire da sottofondo, non in funzione della rapidità dell’azione o della fulmineità del segno esplorante, ma come oggetto fisico e veicolo che consente di spurgare, purificare e scarnificare fino all’astrazione, fino alla stilizzazione della stessa apparenza di forma e materia.Leggi ancora ...
“Dopo un periodo di astrattismo geometrico, con sconfinamenti nel neoplasticismo, dovuto anche al mio lavoro di grafico, cominciavo ad avvertire l’esigenza di operare in una direzione meno rigida, meno meditata, più spontanea, che fosse cioè frutto di una liberazione, di una esplosione interiore. Quasi naturalmente la ricerca cominciò ad evolversi verso poetiche neoinformali, guardando soprattutto ad artisti come Vedova, Tàpies e Turner, quest’ultimo forse il primo pittore informale della storia. Sul finire degli anni ‘80 ci fu il cambio di rotta, che segnò l’evoluzione e al tempo stesso una sintesi tra informale, astrazione geometrica degli anni ‘70 e la grafica. Più che informale, dunque, l’espressione artistica di questo periodo si palesa come contenente una quantità di richiami allusivi di un quid indefinibile, che sfugge alla classificazione, e, ponendosi come enigma, rientra a mio avviso nel genere dell’arte astratta, in virtù di una ricerca più meditata della forma, che viene assumendo i caratteri di un linguaggio definito e rende, sul piano stilistico, la qualità di una rappresentazione interiore. Più che presentazione l’opera risponde a esigenze di rappresentazione, e si rivolge all’esterno in modo più chiaro, pur continuando ad offrirsi in particolare percezione. “Inevitabilmente le mie precedenti considerazioni mi condussero verso un percorso che ponesse dunque l’uomo al centro dell’opera e l’opera come elemento capace di innescare meccanismi di riflessione spontanea. Proprio l’esigenza di non dimorare nell’opera, ma di uscire all’esterno e considerarla come “cantiere” dove sperimentare lavori diversi, caratterizza la fase successiva dell’artista, che realizza idee e le deposita come cose, per annullarsi e comparire dietro la retorica di un oggetto costruito per l’assenza. In tal modo la “struttura” si espande, e l’opera dell’artista è funzionale non più rispetto a se stessa, ma rispetto all’arte.
In realtà si tratta di un’opera guidata da una forte traccia, che è linea di partenza e di arrivo e segnale visivo di un ritmo improntato su una grafica veloce e versatile che è divenuta scrittura e costituzione dell’opera.
Pino Pingitore è grafico fin dagli esordi. Con l’informale ha sperimentato il tentativo di adattare l’incidenza del dettaglio con l’affastellarsi di situazioni che sfuggono, l’ardua impresa di conciliare un particolare grafico, segno e simbolo d’individualità sfondante orizzonti più illimitati, in un processo di strappo e di sfida, di rivelazioni visive sfocianti in altrettanti occasioni di libertà. Ma sempre la relazione si è sottoposta al controllo del sistema riproduttivo, quello grafico, che anzi ha innescato processi di trasformazione e mutamenti visivi di campo, l’organizzazione di un’opera che ha compattato il senso della sua presenza, ha ordinato il processo delle stratificazioni cromatiche, fino a diventare un organismo composto di sé, in certo senso autorigenerandosi e affrancandosi dallo stesso indicatore culturale nel cui ambito si è formata la personalità dell’artista.
L’informale di Pingitore è dunque una scelta di campo per la comunicazione fra elemento inconscio e quello conscio, uno sfondo, come dicevo, di tipo ambientale sul quale adattare l’ambiguità di forme dissolte a un mondo riconfigurato e offerto in percezione visiva come funzione di una forma celebrativa di una precisa identità.
L’opera si palesa, a ben considerarla, come la variazione continua di un unico tema, e ogni lavoro, naturalmente dopo l’elaborata fase iniziale e una volta raggiunta la piena maturità dei mezzi espressivi e tecnici, è una sorta di fuga nella quale il dettaglio è un segnale ottico con effetto amplificante dell’orizzonte mentale ed emotivo.
I processi mentali dell’artista corrispondono a mutamenti direi fisiologici del particolare, e l’arte che ricava dal loro accorpamento è una forma distesa sulla via di una conoscenza esponenziale. Sicché la fattività e operatività sul linguaggio che si autoproclama produce varianti e soluzioni di eventi, come un compiuto meccanismo scientifico, e l’immaginazione s’incammina sulla via di un puzzle fatto di trasfigurazioni e divagazioni successive, fino a disvelarsi, inaspettatamente, in un flusso di coscienza, poiché ricava le proprie leggi dall’interno, in una forza di ragioni coerenti e intime e crea un ordine, o meglio un mondo, con proprio accadimento e rispondenza.
Dunque da un’apparente unità indifferenziata emergono elementi sensoriali che pur essendo organizzati in sintesi di casualità e di varietà ci introducono in una dimensione inconoscibile, poiché la prima sensazione è quella dell’indistinto e l’ultima è una sfera di distinti che implicandosi l’un l’altro postulano una realtà concreta che tuttavia non è definibile, se non nei limiti di termini più o meno approssimativi.
Nonostante ciò è un’arte di conoscenza, perchè il giudizio che può disvelarla deve affermare la sua razionalità e necessità.
Uno spirito scientifico la informa, di possesso mentale dell’oggetto che si offre all’intuizione, e una comunicazione misteriosa ne costituisce forse, insieme alla grafica, il codice genetico, poiché gli elementi che fanno lievitare la superficie forniscono un sapere come energia che stimola e sviluppa. Che cosa? Uno sforzo mnemonico, per esempio, o una dimensione esoterica, o forse più semplicemente un atteggiamento i cui contenuti non possono essere riferiti e devono rimanere nascosti, celati, come certi valori che sostanziano una personalità. Eppure quello di Pino Pingitore è un processo dialettico serrato tra pensiero e operare artistico. Niente è affidato al caso, tutto procede per connessioni logiche, direi quasi a stati di avanzamento, come il progetto di chi, stabilito l’ordine dell’impalcatura, non può non procedere che secondo un tracciato mentale.
È la prova, questa, di un’arte che sfugge al tentativo di imbrigliarla in una definizione informale positiva, e contestualmente è la chiave per intendere quel processo di superamento del referente che si manifesterà, come vedremo oltre, nell’esperienza successiva e concettuale.
Ma procediamo con ordine, e vediamo di mettere a fuoco l’operato di Pingitore mediante la visualizzazione in catalogo delle immagini più rappresentative del suo fare artistico, ormai quasi trentennale, che si estrinseca, a mio parere, in due fasi successive.
Per questo ritengo opportuno inserire un “racconto” dello stesso Pingitore come testimonianza diretta che sia di preludio o di accompagnamento al testo critico successivo.
La mia non era solo un’esigenza di tipo tecnico. Dall’interagire di queste tre esperienze, infatti, cominciai ad avvicinarmi alle problematiche sull’uomo e ai vari concetti ad esse collegati: recupero della memoria storica, spiritualità dell’arte, disorientamento, etc. Per esempio, nel caso della memoria storica, ho sempre pensato, ma credo di non essere il solo, che l’uomo guardando al futuro abbia smesso di guardare al passato, almeno in termini di valori e di continuità, lasciandosi dietro forse il meglio di se e perdendo il rapporto con se stesso, con la memoria, con le radici culturali e antropologiche.
Riferimenti forti, in assenza dei quali ci si sente disorientati. Mi sembra ci sia stata, in nome del progresso, che poi non è sempre tale, una vera e propria cesura col passato in vista di un futuro che non c’è. Questo infatti non è programmabile se non in funzione di un passato, recente o lontano, che lo genera. Dunque la mia espressività andava, via, via, avvicinandosi, anche se tendenzialmente, sempre più verso una concettualità. Anche per questo procedevo azzerando i colori. Davanti a un’opera epurata del colore, che in taluni casi diviene elemento di distrazione, ci si sofferma di più al suo interno, ci si trova da soli con se stessi, a riflettere e confrontarsi. Ma più scarnificavo il colore più lavoravo sulla luce, che corrispondeva a una maggiore consapevolezza artistica e a una più meditata analisi luministica dell’opera.
In ultima analisi la scelta di superare l’informale fu motivata dal fatto che le relative poetiche non mi appartenevano culturalmente. Se pur esaltanti non le sentivo mie, dovevo andare oltre, guardare alla mia terra, alle mie origini culturali, dovevo appunto guardarmi dietro e capire quale parte di me vi era rimasta. Affioravano idee e concetti che sentivo stimolanti e capaci di interagire col mio lavoro. Guardare alla Magna Grecia e al pensiero greco più in generale significava a quel punto veramente guardarsi dentro e affrontare tematiche in grado di speculare sui grandi temi del pensiero dell’uomo e provare a tramutarle in opere d’arte contemporanea”.
Ci sono rimandi, tracce e segni che evocano momenti della storia dell’arte e dello spirito. Così, per esempio, è evidente una meditazione e una felice rielaborazione di quell’eredità caravaggesca che favorisce forme di speculazione e incrementa la valutazione dei particolari, che si fanno più consapevoli e in grado di interagire col mondo esterno per la forza di un’immagine data in virtù di un’elaborazione mentale più autonoma.
Il Caravaggio, dunque, o forse ancora di più il caravaggismo, inteso come linea di pensiero che attraversa un’attitudine pittorica specifica, l’analisi e lo studio della luce, di una luce fatta di cause che producono effetti e di effetti producenti causa nell’incontro con un’opera che si rivela oscura, silenziosa, in certi casi sovrabbondante, ma in cui ci si installa dentro per principiare un dialogo costante.
Emerge una poetica della luce come ricerca di simboli interiori, metafore e oscurità rischiarate da tagli trasversali di raggi di luce che alludono ad altro, a una misteriosa presenza, verosimilmente mistica.
In effetti la sapienza delle penombre, la morbida sensibilità dei toni, l’inclinazione dei piani e gli effetti prospettici creati dai dettagli, sottolineano uno spessore più alto, di natura morale e trascendentale, segnato anche dalla particolare architettura dell’opera.
Ecco perchè, senza pensare a ulteriori decostruzioni, appaiono evidenti le linee intense e psicologicamente convincenti di circolarità o di tutto tondo stagliate nello spazio, quasi affinché il profilo di un’abbazia, di un convento, o comunque di un tempio, risultasse netto, pur nell’occultamento dei piani in prospettiva delle costruzioni stesse.
E credo sia proprio questo sforzo, questa tensione di adeguamento a un’immagine “altra”, fortemente interiorizzata e sfociante in motivazione iconografica di tipo sacrale che sostanzia l’humus del linguaggio espressivo di Pingitore fino a divenire costitutivo di uno stile e di una forma pittorica riflessa di luce.
Il colore stesso è permeato di luce incidente che fa assumere trasparenza e valore cromatico alle ombre, che, esaltando i volumi in funzione di rilievo plastico, si pongono come caratteristiche strutturali dell’opera.
Un’opera in cui il colore viene interpretato dalla luce, che lo espande, per così dire, e lo inserisce fra gli elementi luminosi di altri colori.
Da qui il riconoscimento di una pittura che accentua la drammatizzazione dei sentimenti, connota e sintetizza una distanza non credibile in una sorta di fotogramma ravvicinato, ma che comunque concentra la scena per mezzo di un uso spregiudicato della luce, degli scuri e della gamma coloristica abbastanza ridotta.
Così lo schema illustrato si svolge in padronanza di virtuosismi luministici, e l’immagine, segnata sul fondo di ombre variegate con diagonali molto accentuate o appena suggerite, ruota attorno a modelli luminosi, tradotte in termini di scelte stilistiche e implicanti orientamenti ideologici.
La luce, in tal modo, assume significati letterali, proprio come nell’opera del Caravaggio, ma io credo in termini soprattutto laici piuttosto che in rapporto a elementi di pura religiosità. Si pone cioé più come direttiva, apertura, simbolo gnoseologico e spazio dell’intelletto.
In questo senso parlavo di opera alludente una quantità di richiami, e di uno sfondo solo informale come teatro ambientale su cui associare una forte carica emozionale, non solo, ma di realizzazione astratta sul piano puramente estetico, producente una forma che si autoproclama, specie sotto l’aspetto spaziale e luministico, scopertamente unitaria e sola.
Ed è qui, nella forma, che risalta il particolare aspetto linguistico che discende dalla grafica di Pingitore e attribuisce alla sua opera un carattere squisitamente autobiografico: l’eleganza.
Nel registro stilistico dell’artista, seguendolo passo passo, è conservato l’elemento grafico-costruttivo, che in certo senso modella la rappresentazione e conferisce alla scena un pathos di morbida eleganza, non riproducibile al di fuori di una certa aristocrazia del senso che si prospetta come paradigma estetico dell’intera opera dell’artista.
La grafica si presenta come inserimento di elementi articolati che equilibrano le diagonali, la stratificazione dei piani prospettici e successivi, e arricchiscono il silenzio ermetico di zone dove è più incisiva l’accentuazione psicologica degli effetti luminosi. Si tratta di minuscoli interventi, a volte di pura virtualità, ma che si aprono fino a diventare la pianta di un teatro che ristabilisce “l’aura” dell’arte, eterea e libera, in funzione di identità con una raffinata vuotezza, suscettibile di riempimento, attorno a cui ruotano elementi anche trascendentali.
Ne consegue che l’approccio a quest’opera passa, dall’analisi della luce, che si accende sulle scene simboliche dei luoghi teatrali dove postula accadimento, fino alla materializzazione di segni e simboli per renderli espliciti, in vista di ulteriori svelamenti.
In ogni caso la struttura provoca l’opera, e all’artista, come al fruitore, non rimane, con Heidegger, di “dimorare in essa”.
Approfondivo l’aspetto linguistico e speculativo di un’opera che si andava spostando sempre più su elementi concettuali, i quali si scoprivano idonei a un confronto artistico più serrato e autentico.
Questo significava, di fatto, riappropriarmi di un ruolo che l’artista sembra avere smarrito, quello cioè di non operare nel chiuso della propria individualità e nelle proprie gabbie, ma di dare un contributo, come centralità positiva, al sociale”.
Sorgono opere concettuali in cui la presedente intavolazione astratta sposa una norma di tessitura geometrizzante, di sapore squisitamente minimale, dove la prosodia della realtà si fa alternativa di una verità imperniata consapevolmente intorno all’Uomo e alle varie questioni esistenziali. Si tratta di corpi descritti come oggetti di mondi frammentati e riconquistati attraverso la partecipazione attiva e non passiva del fruitore, il quale finisce per recuperare una sfera privata, un certo senso di controllo della propria soggettività “rubando” quella parte dell’opera “morbida e soffice” intesa a sottolineare significati autentici da cui non si può sottrarre. In questo senso l’opera diviene traccia di lavoro per una filosofia della comunicazione le cui coordinate, legno, piombo, vetro, cromatismo, etc., apparentemente chiuse al dialogo ed ermetiche a un approccio mentale capace di provocare ed estendere la polidirezionalità comunicativa dell’opera.
Sicché i mondi frammentati si traducono in reperti di spiazzamento, in colpi di fulmine incalzanti la stessa cronologia delle avanguardie, che diventano strumenti per entità nominative di qualcosa che sta al di fuori dell’opera medesima.
Il segno è definito, rigorosamente tracciato per attrarre un fruitore a sua volta spezzettato, frammen-tato - è il caso, per esempio, delle opere costruite quasi a graticola, con lo sfondo di una superficie vitrea che “blocca” il riguardante - in virtù di metafore di rinvio di significati sottratti alla percezione immediata ma offerti di ramando, some postfazione, come concettualizzazione di elementi esistenti anche al di fuori dell’opera stessa.
È a questo punto che l’opera di Pingitore diventa concreta, poiché “incrocia” la narrazione obliqua del riguardante. Così, sollevando uno dei “veli” posti su talune opere, costui penetra, come attraverso progressivi svuotamenti della propria personalità, e mediante la sua immagine riflessa sul vetro, che prima non appariva, all’interno di se stesso, nella sua sfera esistenziale, intima e inconscia. Come se l’opera recintasse il suo spazio privato e abbattesse le difese, e ogni tentativo di uscirne si configurerebbe in realtà come fuga o allonta-namento da se medesimo.
Come si vede i risvolti psicanalitici sono evidenti, ma altrettanto lo sono quelli intesi a un o sforzo speculativo che riguarda in generale la condizione dell’uomo contemporaneo, di questi tempi, per Pingitore “ingabbiato - come alcuni lavori suggeriscono - in luoghi comuni, pregiudizi e schemi mentali per uscire dai quali dovrà sollevare diversi “veli”.
Il velo, forse, è il senso ultimo della fatica che l’uomo deve ancora com-piere nel suo interminabile viaggio verso la civiltà, e dello sforzo ininter-rotto dell’artista, questo novello Ulisse che non vuole ingannare, anche se l’arte, come sostiene Adorno, è magia liberata dalla menzogna di essere verità. Da qui la riflessione formale e la ricerca basata su una ratio di essenzialità e di sintesi. L’opera si fa rarefatta, semantizzata in vista di autonomia strutturale, quasi partitura di luoghi riflessi o teatrali di nuove riflessioni sui percorsi dell’arte. Riappare l’eleganza di un linguaggio unitario, che si palesa ancora come direzione intrinseca della ricerca di Pingitore, veicolo stilistico di una trasgressione silenziosa che trasferisce dal proprio interno il senso di un mutamento di gusto che interrelaziona all’esterno mediante lo “scarto” concettuale e la soluzione formale. Per questa via, in definitiva l’arte di Pingitore si pone come produzione materiale di senso, poiché, ironica e ambigua, astratta e speculativa, si fa indicatrice di giudizio di mondi di segni di un pensiero analitico in grado di gettare sguardi penetranti, sia pure in gran segreto, a ciò che la post-modernità sembra aver mascherato.
1996, Gianfranco Labrosciano. Testo mostra personale, Catanzaro S. Elia
PINO PINGITORE
Da un iniziale gestismo segnico, a tensione puramente astratta, fino al rigore formale e compositivo di una pitture “altra” e di contenuto, l’arte di Pingitore si manifesta di tutta evidenza come quella di una ricerca incentrata sui due elementi costanti della luminosità e dell’eleganza. Gianfranco Labrosciano
In entrambi i fattori risalta la componente grafica, che si pone, a mio avviso, come elemento costitutivo, mezzo di attraversamento e di specificazione dell’intera opera.Leggi ancora ...
Dall’esperienza informale emerge una necessità analitica che si sostanzia in un tipo di ricerca estensiva, fino a divenire predicato ed essenza della sua pittura.
Necessità analitica condotta col rigore del grafico, che riesce a Pingitore semplicemente travasando il suo lavoro più tecnico nella cangiante atmosfera dell’arte. Ma lo spostamento semantico del segno produce accelerazione di senso, e il gesto che attraversa l’opera, come dicevo, la specifica.
Ne consegue uno stile particolare, ben definito, in cui la giustapposizione di elementi – in primo luogo luministici e cromatici - del disegno e della pura forma perviene a equilibrio inaspettato, specie dove l’analisi, già puntuale dei puri elementi visivi, si estende a contenuti più universali, che toccano altri contesti riguardanti l’Uomo, e, in genere, la crisi epistemologica del sapere.
Per questa via, contro una tendenza trasgressiva, utopistica dell’arte, mediante l’intervento razionale Pingitore si sposta verso ipotesi di riforma attiva dell’arte sulla realtà, mediante un altro attraversamento, quello della Storia, come momento di recupero di un “genius loci” che è flusso della coscienza, dialogo costante e dialettica di ricominciamento con la polvere del Tempo.
1996, Gianfranco Labrosciano. Pino Pingitore. La poetica del tempio, Di tutto... un po'. Anno 3 N. 218
PINO PINGITORE. LA POETICA DEL TEMPIO
Il valore dell’opera di Pino Pingitore, pregevole sul piano estetico per il raro equilibrio e la geometrica compostezza di una forma raggiunta sacrificando il segno di un’espressività originata da una calda gestualità di tipo informale, consiste nel provocare una serie di rimandi e di evocazioni suscettibili di accelerazioni progressive tali da rasentare il capolavoro, per l’ardita soluzione costruita all’incrocio dei pali fra rigore formale e pensiero concettuale provocando una sorta di naturale sbandamento e, via via, sentimenti coevi di sorpresa e di stupore.Leggi ancora ...
Gianfranco Labrosciano
Di primo impatto, guardando l’opera, risalta una semplice intelaiatura di legno che serve da supporto per la superfice di uno specchio dentro il quale, inaspettatamente, il riguardante viene immobilizzato, in una certa misura diventa egli stesso l’opera, che si realizza compiutamente solo con la sua partecipazione.
Ma appena specchiatovi il riguardante avverte un sussulto. Ciò che contempla non è l’opera, ma se stesso, con il conseguente disorientamento e sbandamento della coscienza. Affiora improvvisamente una serie di stati d’animo oscillanti e contrastanti, anche perché gli stretti spazi fra le liste di legno non consentono di riflettere interamente il volto, anzi, come sbarre lo tagliano letteralmente in due. Sicché, nella propria immagine sdoppiata, il fruitore percepisce slittamenti del profondo, della sfera sommersa della sua stessa psiche.
L’impatto con quest’opera, dunque, è forte, perché inchioda e costringe senza mezzi termini, recando intrisa, come una parte di sé, la sostanza della nostra vita. Un senso claustrofobico ci “imprigiona” nell’opera che assume, per il rigoroso impianto prospettico e lo stratagemma illusionistico causato dallo specchio, piuttosto le fattezze di una gabbia, suscitando panico e quasi angoscia per la sensazione di non poterne uscire. E percepiamo la gabbia, nitidamente come quella della nostra vita, nella quale ci siamo incastrati per effetto di schemi mentali che ci hanno incatenato.
Nell’opera c’è comunque, al di là della retorica, una dimensione interna, che blocca lo spazio e lo circoscrive esattamente in un vano o una cassa ferma, e una dimensione esterna, evocatrice di un parallelepipedo i cui ritmi orizzontali e verticali formano superfici continue.
Ma questo è precisamente il tratto, la qualità peculiare dell’architettura greca, quale si affermò in Italia, nelle regioni meridionali, dall’inizio del VI sec. a.C. Ed ecco la sorpresa. L’opera che abbiamo davanti è la ricostruzione puntuale, sul piano concettuale ed estetico, del tempio greco come massima espressione di spiritualità, di poesia, di tecnica e di armonia.
Precedendo anzi nell’esame dell’opera – un’opera ardita, come dicevo, complessa e semplice a un tempo, destinata, io credo, a segnare un momento di innovazione e di rinascita, a fare da spartiacque fra vecchie e nuove concezioni del fare e del pensare l’arte – ci accorgiamo con rinnovata sorpresa che si tratta del recupero concettuale del tempio dorico, e precisamente di quello che trionfò nella Magna Grecia, nei territori di Selinunte, Agrigento e Paestum.
A questo punto il messaggio di Pino Pingitore si evidenzia. L’opera, dal costringimento di una situazione individuale ci veicola verso percorsi collettivi, di storia e di memoria, e ci riporta in un balzo alle origini, nel mondo arcaico e greco da cui veniamo. Noi questo siamo.
Dietro le quinte di una tela pensata esattamente come la cornice di un tempio, sotto la quale sono evidenti, pur nella dinamica straniante dell’arte contemporanea, gli elementi del fregio e dell’architrave, si aprono le scene di un teatro grandioso che ha sfidato i secoli, sorretto, poggiante, come l’opera di Pingitore, su un concetto purissimo di forma che non sarebbe stato superato, la colonna.
Se i greci di Atene riuscirono vittoriosi contro la forza militare di Sparta e seppero imporre la loro civiltà al mondo allora conosciuto, è perché elaborarono un progetto vincente e purissimo di vita, etico ed estetico ad un tempo – a differenza di noi che restiamo travolti dalla società dell’immagine – e lo trassero da un’idea che conteneva tutta la forza di una rivoluzione, la colonna, appunto, da cui poi si originò la scultura.
Ecco cosa sono quelle strisce di legno nell’opera di Pingitore. Più che sbarre sono colonne, e più che a gabbie lo specchio rinvia alle celle di tipo dorico, dove abitava il divino, lo spazio umano dell’immensità.
Ma accostiamoci di più a quest’opera che ci stupisce e ci restituisce il valore dell’opera d’arte come sintesi di una molteplicità di significati etici che si aggregano attorno a una forma autenticamente estetica, suscettibile di rompere col passato ma di evolvere, di rivoluzionare ma di innovare, come fu la colonna del pensiero greco e della Magna Grecia.
La striscia posta a sostegno della superfice vitrea evoca indubbiamente la colonna, e la scelta del legno allude al tempio, che originariamente era strutturato con tale materia.
In più, l’ordine delle colonne dei templi cui Pingitore fa riferimento è rispettato. Così, per esempio il Partenone, massimo tempio dorico, ha otto colonne sul fronte, così come è rispettata l’altezza delle stesse costruite, come sappiamo, sulla scala delle proporzioni umane: le colonne sono cinque volte e mezzo il diametro di base, esattamente quanto misurano le “colonne” di Pingitore rispetto all’impianto dell’opera.
Stessa cosa vale per le opere che alludono all’architettura religiosa della Magna Grecia, relative al Tempio di Nettuno e Pesto, a quello della Concordia ad Agrigento o a quello di Selinunte. E anche l’accenno, quasi impalpabile per altro, alle stesse scanalature, rispettate nel numero di ventiquattro e di sedici, ha la medesima funzione che aveva nella colonna dorica, di far risaltare i valori pittorici mediante la gradazione e provocare la sensazione di una vibratile vitalità.
Ma cosa c’è dietro il “Tempio” di Pino Pingitore? Innanzitutto c’è l’etica. Un mondo da ritrovare nell’attualità del mare magnum del territorio meridionale, che ha filtrato una civiltà, quella greca, che ha realizzato sostanzialmente un nuovo modo di essere basato su principi di collettività e universalità.
E questo riguarda in larga misura anche l’arte del nostro tempo. L’arte non è indipendente dalla morale, ed è totalità spirituale. Privata di questo contenuto resta nel mezzo e lacerata fra una metafisica, più o meno consapevole o inconsapevole, e la vuota esperienza di una scienza determinata, l’arte per l’arte si risolve nella sterile ricerca di classificazioni, tipologie o generi, e qualunque definizione che abbraccia tale concetto si svolge a favore di questa o quella poetica, segnando limiti arbitrari all’operare dell’artista.
In secondo luogo l’impalcatura del “Tempio” di Pingitore poggia anch’essa su un’unica piattaforma, come i grandi temi filosofici del mondo greco. È una complessità di pensiero articolata nel senso dei rapporti dell’individuo con la totalità universale. Fuori da questa impostazione resta il particolare, che non interessa all’artista come non interessava a quello greco, senza l’intima dialettica che evolve nella molteplicità.
Insomma, Pino Pingitore innesta in una struttura modulare costruita come architettura del pensiero, il tema del doppio, del labirinto, mediante l’incastonamento di uno specchio che imprigionando il riguardante lo obbliga a stazionare in sé. Successivamente il riguardante si sdoppia ancora, da una parte come cittadino di una polis antica ed attuale, Magna Grecia – Meridione d’Italia, che conserva e afferma i valori di riferimento, giustizia, verità, senso di misura e delle proporzioni, e dall’altra partecipa del divino perché contempla un interno, quello dell’essere, in una condizione etica di ritrovata religiosità.
Probabilmente l’opera contiene tante facce di una sola verità, ossia quella di un uomo moderno sbaragliato nel flusso della storia e di una crisi epistemologica profonda, che a un certo punto muta il corso del suo libero percorso e come un piccolo Ulisse ricostruisce il mondo che fu suo, viaggiando e dialogando silenziosamente con la polvere del tempo.
1997, Claudio Alessandri. Pingitore Pino. Architetture di luce
PINGITORE PINO. ARCHITETTURE DI LUCE
Lo svilupparsi armonico delle ampie campiture alle quali il sapiente cromatismo conferisce liricità, è per Pino Pingitore il naturale evolversi del suo primigenio mondo espressivo fatto di ponderati tratti di una grafica ispirata, eppure ristretto ambito negante una totale espressività legata ad una fantasia propensa a valicare ogni concretezza per perdersi in un mondo liricamente osservato, un tuffo rigenerante al di là del “banale” visibile.Leggi ancora ...
Claudio Alessandri
1997, Gianfranco Labrosciano. Pino Pingitore. L'autorità del colore, Economia Catanzarese, Anno XXXV, N.1
PINO PINGITORE, L’AUTORITÀ DEL COLORE
Artista tra i più rappresentativi fra quanti operano nella città di Catanzaro, è più di ogni altro artista “calabrese”, essendo riuscito, con la sua opera, a coniugare felicemente i valori attuali dell’opera contemporanea con quelli storici e ideali del territorio di appartenenza.Leggi ancora ...
Gianfranco Labrosciano
Partito da postulati artistici di carattere informale, sulla base delle suggestioni di un Vedova, e per quanto riguarda il passato di un Turner nel suo lungo excursus storico si è gradatamente spostato verso un rigoroso formalismo astratto. Progressivamente il carattere alquanto geometrico e puramente visivo della sua opera, concentrata su una forma data anche dal sapiente cromatismo del colore, si è tradotto in pittura concettuale per la pregnanza dei significati storici e ideali in essa infusi.
La sua produzione più recente, di sapore più minimale, nella quale le larghe campiture della superfice pittorica favoriscono l’insorgere di una forma più distaccata e rarefatta rispetto al passato, rivela un più marcato spessore analitico, di pensiero, in cui la forma è rivolta al recupero di un contenuto storico che Pingitore inserisce nella dialettica del processo artistico: i valori etici, formali e contenutistici dell’arte greca, intesa come simbolo di una civiltà che ancora vive.
Così, nel processo dialettico con l’artista magnogreco, e nella identificazione culturale con il territorio sul quale vive e opera, Pingitore riannoda i fili della contemporaneità storica organizzandoli in funzione di continuità e di identità.
La sua opera, allora, si propone come trait-d’union fra il passato e il presente, in funzione di recupero della memoria e riqualificazione del ruolo culturale e contemporaneo dell’artista del Sud in un contesto nazionale ed europeo. Sicché la concettualità del mondo greco, di cui l’artista si fa ideale continuatore, permea l’opera. Da una parte il bello come direbbe Platone, e dall’altra il luogo del pensiero e del concetto, come invece sosteneva Aristotele.
Sorgono quindi opere da un verso astratte, che pur allontanandosi dalla realtà la penetrano, la scandagliano in visioni o immagini date dalla sua imponderabile profondità, non essendo la stessa astrazione che il lancio verso l’alto dall’immenso serbatoio della realtà, e dall’altro verso opere di impianto analitico, di natura dialettica, che consentono di gettare uno sguardo sull’azione degli uomini e della storia dalle quinte di quel teatro “inutile” che è l’arte.
1998, Aldo Gerbino. Disagi e minimali bagliori, Oggi Sicilia, Anno III, n. 51
DISAGI E MINIMALI BAGLIORI
Non sappiamo fino a che punto la terrestre identità di identità di Pino Pingitore sia continuamente oggetto di verifica o di possibile filtrazione. Ma appare evidente come il suo processo di maturazione estetica venga ad essere plasmato attraverso una partecipe e critica tensione emotiva. Leggi ancora ...
Aldo Gerbino
Oppure far uso dell’inserimento di materiali del territorio capaci di consentire un colloquio sempre più vasto con una cultura pittorica nordeuropea, per poi permettere a questa di tingere le proprie brume con le lunghe e tensive propaggini meridionali, con le magnetiche memorie del mito, con le fluttuazioni del non sopito registro del ricordo. Ora lo spazio viene sommosso da elementi geometrici: quadrati, lame triangolari, diafani lemnischi; calde colate di pigmento influenzano il perimetro della operatività, quasi un racconto nato con urgenza dal profondo e pronto a dipanarsi sulla superfice della tela. E su questa, appunto, si sostanzia la profondità che discende nelle testure litiche della natura, o corre, per smisurate braccia, verso intricate architetture sopraffatte da luci polarizzate.
Sono queste strutture ad essere avvolte da un compatto senso di scoramento affiorato dal nulla, mentre lucentezza e ombre le dilacerano in un mare di improbabili visioni, disperse in una sorta di minimale onirismo. Altre volte la suggestione dei monocromi si irradia in esplosioni, in attriti, in tensioni; si esalta la nuova dinamica del percepire nel contatto fra spessore e spessore, tanto da costruire gabbie, trame attorte, piranesiane atmosfere fatte di fatte di scale e tralci inquietanti. Ciò che spesso affiora in questi oli e vernici, è un loro tenebroso sopore o, altre volte, l’improvvisa frantumazione contro la luce, così da risvegliare quei simboli definiti dall’artista come “archetipi”; elementi dissolti in un cinematico viluppo che richiama dissolte lezioni pregne di futuristici smalti.
Ma ciò che più risolve la dimensione attuale della ricerca di Pingitore è il suo re-interpretare le dimensioni dello spazio. Ora esso si mostra intriso da rastremate icone, emblemi lievemente palpitanti, astratte suggestioni appena vincolate da un geometrismo fluido, interagente, in cui, lungo la fredda lama del colore, si accende un bagliore, come una pulsione feconda, mentre emerge, incoercibile, il profilo di un interiore disagio.
1998, Gianfranco Labrosciano. Testo mostra personale Galleria Le stanze del tempo, Lamezia Terme (CZ)
PINO PINGITORE
La produzione artistica di Pino Pingitore corre sul filo di una linea di demarcazione sottile fra un’idea di pittura puramente retinica, visiva e tattile, e una pittura di significazione, squisitamente concettuale, affidata a una bellezza non olfattiva ma alla qualità del pensiero. Leggi ancora ...
In pratica Pingitore concepisce la pittura come un ponte gettato fra le opposte rive del sogno e della ragione, della pura visibilità e del rigore analitico, capace di congiungere le due grandi tradizioni dell’arte occidentale, la pittura degli occhi e quella della mente.
Sicché l’opera si sostanzia nella visione di un’immagine astratta, di geometrica bellezza, che affida allo scalare dei piani cromatici, alla sensualità della luce e delle ombre e al movimento di un ingegnoso meccanismo coloristico, il compito di afferrare l’illusione psicologica mediante la quale l’arte si manifesta come passione e mina l’autorità della ragione
Gianfranco Labrosciano
1998, Nino Campo. Pino Pingitore. Pennellate di luce, Blu Calabria, Anno III, N. 5
PINO PINGITORE, PENNELLATE DI LUCE
Mettersi un Pingitore dentro casa è un po’ come ascoltare per la prima volta un brano di musica jazz. Là per là non lo capisci, non riesci ad afferrarne il refrain, ad individuare la sequenza teorica. Poi però, piano piano il ritmo ti prende e ti entra, nel cervello prima, e poi magari nel sangue. E non puoi più farne a meno! Così sono le tele di Pino Pingitore, o le rifiuti totalmente o te ne innamori.Leggi ancora ...
Nino Campo
Spesso sono quadri di grande superfice, Pingitore li predilige decisamente, che magari richiedono una parete intera. Affascinanti dipinti pieni di materia nei quali perdersi, per ritrovare poi ogni volta qualcosa di nuovo, qualche particolare che non si era notato. Proprio come accade generalmente prestando orecchio ad un buon brano musicale.
La similitudine con il jazz dovrebbe far subito capire che Pingitore è artista informale, anzi astrattista convinto ed assoluto. E per questo si intuisce altrettanto facilmente che, partendo da una piccola città dell’estrema periferia italiana non deve essere certo troppo facile.
Come spiegare ai più il messaggio musicale Coltrane o di Hellington contrapposto ai facili motivetti del Festival di Sanremo? Come pretendere di convincerli a non acquistare sempre i soliti panorami, le usuali Madonne, i consueti pupazzi?
In tutti i casi comunque Pingitore non si è mai posto il problema; il suo intento principale è dipingere, trasferire su tela le proprie sensazioni, indipendentemente dalle questioni di mercato.
È dunque artista vero, di quelli che non sono interessati alle piccole e grandi speculazioni e che magari devono andare all’altro mondo prima di vedersi riconoscere una qualche patente di celebrità.
Intanto il quarantenne Pino Pingitore è comunque vivissimo, ed in questa condizione intende rimanerci a lungo, pur sacrificando qualcosa alla fama ed alla gloria. E chissà che comunque qualche briciolo di notorietà non passi, prima o poi, sulla sua strada, magari grazie ad una delle tante “personali” organizzate per lui un po’ in tutta Italia. Le ultime, frequentatissime, in ordine di tempo, sono state quelle di Palermo e di Catania, nelle quali sono andati in mostra i pezzi della produzione più recente. Presto sarà a Roma e poi a Milano e Bologna.
Superata la fase dei “neri”, quadri sovrabbondanti di tonalità scure ed oggettivamente rivolti ad un pubblico molto elitario, nelle tele di Pingitore è ricomparso il colore. Squarci dalle tonalità azzurre, rosse e blu, fuoriescono dalla materia pittorica come lame di luce e si fissano sulle retine oculari alla stregua di sensazioni zampillanti di vita.
La luce dunque è oggi la protagonista delle grandi tele di questo caparbio astrattista calabrese che pure oramai proiettato su scala nazionale. Parecchi sono infatti i galleristi in Italia che cominciano a contendersi la possibilità di trattare le sue opere.
I quadri di Pino Pingitore sono concepiti per non stancare, per essere sempre nuovi, ricchi di spunti diversi; proprio come la grande musica dei grandi maestri jazz del passato, quella che oramai, noi amanti del genere, portiamo stampata dentro al dna, fino all’anima.
E chissà che le opere di Pingitore non si rivelino presto anche un buon investimento, oltre che un piacevole strumento per deliziare la nostra mente e magari abbellire i nostri salotti.
1999, Bernardo Mercuri. Dal testo della mostra Guardando da altre finestre, Galleria Imago Mundi, Lamezia Terme (CZ)
GUARDANDO DA ALTRE FINESTRE
…Pino Pingitore opera una sintesi astratta sul doppio binario della materia e del colore, non cercando una reazione dialettica con la soggettività, ma una sorta di oggetto parziale che crea uno scambio diffratto, una sospensione…
Bernardo Mercuri
1999, Lucia Spadano. Segno, Anno XXIV N. 168, giugno
GUARDANDO DA ALTRE FINESTRE
…Questo intersecarsi di prospettive si esprime come sottolineatura dei fattori che ne costituiscono le modalità, anche nel lavoro di Pino Pingitore. La pietra pomice, le funi ed altri materiali che ne compongono la texture partendo da una matrice astratta, aprono verso l’immaginario mitico, ma senza tensione rievocativa, semmai il tutto sembra finalizzato a cogliere la temporalità che è matrice e genesi delle culture che costituiscono il sostrato interpretativa della nostra epoca.
Lucia Spadano
1999, Raffaele Cardamone. Testo mostra personale, Colosimo Arte Contemporanea, Lamezia Terme (CZ)
Stiamo navigando in un mare agitato. Il mare magnum dell’arte figurativa. Dominato da un pensiero ondivago. Più vago che altro, perché l’arte è difficilmente afferrabile e riconducibile a una parola, una frase, un’impressione univoca.Leggi ancora ...
Raffaele Cardamone
L’arte è indeterminatezza. Pensiero vago, appunto: forzatamente sfumato. Ma anche pensiero che vaga. Che si muove attraverso i luoghi della mente. Il più liberamente possibile, nel realizzare un’opera d’arte o nell’accostarsi ad essa. Perché l’atto della creazione e della fruizione sono più vicini, più simili di quanto si possa credere. E la fruizione è quasi sempre una ri-creazione dell’opera attraverso gli occhi di un nuovo autore/attore. Non ha pennello o scalpello (o che altro?) ma i suoi strumenti sono gli occhi e l’anima, gli stessi che ha usato anche il primo costruttore dell’opera.
Un quadro non è mai lo stesso quadro. Quello che vediamo, che sentiamo, dipende da noi stessi e magari anche da ciò che abbiamo mangiato a pranzo, dal film che abbiamo visto la sera prima in TV, dalla sensazione che abbiamo provato, venti anni fa, baciando per la prima volta. L’opera viene modificata – completata - dalle nostre personali visioni.
È un rapporto complesso quello con l’arte. Con un quadro-operadarte. Un rapporto che quasi sempre arricchisce l’opera e chi la guarda. In un interscambio di segni e decodificazioni, di stimoli ed emozioni.
Tutto questo per dire che è con il mio personale – unico al mondo – bagaglio di esperienze (visive e non) che mi accingo a scrivere dei quadri di un artista che ha scelto di condividere con tutti noi il bisogno di esprimere un sogno interiore, il gesto chi gli ha permesso di posare il primo punto che diventa che diventa linea che diventa forma, che diventa…
I quadri di Pino Pingitore sono dominati da accurate geometrie. È il nostro cervello che immaginando (…adempiendo all’atto supremo dell’umana essenza), dovrà completare il percorso di un pensiero viandante che vuole essere in cammino verso, rendere definitivo ciò che desidera essere ancora imparziale, ma pronto a tutto!
Gli ingredienti, che l’artista ci mette a disposizione per portare a compimento questo processo di sintesi, provengono tutti dal mondo reale. Sono segatura, legno, pietra, cordame… Elementi che fanno banalmente parte della vita quotidiana. Ma che nella dimensione dell’opera assumono la dignità di un tessuto cellulare, su cui si basa la vita stessa del mondo.
Quella di Pingitore è un’arte onnivora, che chiama a sé tutta la materia necessaria per potersi esprimere e la reinterpreta con invenzioni continue di disposizioni, sovrapposizioni e, quando i materiali accostati non collimano perfettamente, assenze…
Gli spiragli che si formano, lasciano intravedere frammenti di una nuova realtà che affiora quanto basta per farci sapere che esiste. È una realtà intima, segreta, priva di anomalie. Pensiero puro. Ed è da li che vogliamo ogni volta partire, è li che vogliamo ogni volta approdare. Un’Itaca personale dove inizia e finisce il nostro peregrinare.
Io li ho visti così, i quadri di questa mostra. Ora tocca a voi guardarli e magari appuntarvi mentalmente - se volete, se pensate ne valga la pena – cosa hanno significato per quel vostro sguardo.