2002, Lara Caccia. Dal catalogo della mostra Il quarto re. I segni del contemporaneo e la ricerca religiosa, Chiesetta di Sant'Omobono, Catanzaro
IL QUARTO RE
I SEGNI DEL CONTEMPORANEO E LA RICERCA RELIGIOSA
…Invece la crocifissione priva di immagini di Pino Pingitore sembra preludere alla resurrezione. La croce si sviluppa per moduli in altezza, tralasciando i bracci laterali che sono appena accennati, prefigurando quasi un luogo suddiviso in “stanze” dove ognuna è predisposta a qualcosa, ognuna custodisce qualcosa. Leggi ancora ...
Lara Caccia
2002, Luigi Bianco. Dal catalogo Eremòti, eruzioni d'arte, Biblioteca Comunale, Stalettì (CZ)
EREMÒTI. ERUZIONI D’ARTE
Da anni Pino Pingitore insegue su grandi tele (od altri supporti) segni e gesti informali (anche di forte contrasto) che plachino il suo desiderio: quello di imbrigliare la forza dentro un impianto di armonia. Forse nelle installazioni questo desiderio si avvera in naturalezza: perché anche i materiali più duri (come le pietre) trovano la giusta collocazione spaziale. Leggi ancora ...
L’installazione di Stalettì ne è una pregevole conferma. In una stanza tutta per lui, Pingitore ha disteso uno strato di terra un po’ mossa e vi ha poggiato sopra una serie di sfere dorate: con un allineamento che una luce particolare allunga in estetica profondità. Così quelle semplici sfere sembrano stelle cadute su una terra ancora ospitale (ancora capace di un laico miracolo). Luigi Bianco
2003, Lara Caccia. Dal catalogo della mostra Sconfinamenti. Tra arte e filosofia, immagine e pensiero, Centro Aleph Arte Lamezia Terme (CZ)
SCONFINAMENTI
TRA ARTE E FILOSOFIA, IMMAGINE E PENSIERO
…Così, per Pino Pingitore, la stessa azione della scelta qualitativa e quantitative dei materiali naturali, diventa comunque un momento formativo dell’opera; atteggiamento iniziatico che confluisce della disposizione meticolosa di questi sul supporto scelto. Leggi ancora ...
Nell’opera Rivelazione il fruitore cerca di indagare ciò che viene suggerito dal titolo, ed interagisce con l’opera cercando scoprire il telo. La verità è celata dalla stoffa, ed è prigioniera delle sbarre di legno. Nell’attimo in cui egli si avvicina a “svelare” la verità proposta dall’artista, questa aspettativa viene ribaltata: ciò che viene rivelato è solamente l’immagine di noi stessi, nello specchio riflettente al di sotto del legno. Quindi non la rivelazione di una verità, ma l’emergere della dissoluzione della verità attraverso il pensiero del singolo… Lara Caccia
2003, Luigi Guido. La via interiore di Pingitore, sulle orme di Ulisse, La Provincia Cosentina, Anno V, N. 133, venerdì 16 maggio.
LA VIA INTERIORE DI PINGITORE, SULLE ORME DI ULISSE
Presso i locali del Centro Studi “Gianfranco Labrosciano”, in Corso Telesio sono presenti le opere, imponenti per dimensioni e contenuti, dell’artista catanzarese Pino Pingitore. La mostra si terrà fino al 30 maggio offrendo ai visitatori un “viaggio” attraverso i periodi che maggiormente hanno caratterizzato l’opera dell’artista. Leggi ancora ...
Luigi Guido
2006, Gianfranco Labrosciano. Testo mostra personale Confini, Galleria Quadrature, Lamezia Terme (CZ)
CONFINI
Pino Pingitore privilegia il confine.
Perlustra e circoscrive lo spazio virtuale nel quale il riguardante, dopo la frantumazione di ciò che ricorda e che si vede, si scolla e si straccia, regredisce nell’antiforma, per così dire, in un tableau vivant che è materia del suo pensiero e si trasforma egli stesso in “scena”, in una immersione di globalità e libertà totalizzante. Leggi ancora ...
Si tratta di un’arte che elimina lo schermo del reale e che conduce alla specificità di un’azione che, riducendo la mimesi a ruolo secondario esalta l’azione intuitiva che tende alla “decultura”, ovvero alla regressione dell’immagine allo stadio preiconografico in cui i nuclei focali risultano essere, alla fine, l’idea e la coscienza. Solo quel drappo resiste, si direbbe, alla grossezza enfatica della vita. Unico elemento di conoscenza concreta dell’autore che si adatta a un insieme di possibili eventi che sfuggono al contingente in una zona neutra, direi di immensificazione percettiva, realizzata non più mediante la corporeità, ma per il tramite del sogno, del desiderio e, alla fine, della fantasia, che è l’unica capace di superare l’esperienza. Un’arte concettuale, dunque, che per quanto di stampo figurativo attiene alla dimensione mentale e si traduce in un agire libero, che dissolve la mimesi in un atto propulsivo di libertà. Sicché il riguardante sollevando il “velo” entra nel mistero, nel rimbalzo dialettico tra consumo immediato dell’evento estetico e passaggio diretto nell’idea, nell’energia vitale e dialettica di un manufatto che è come un veicolo di attivazione psicofisica verso un’altra realtà, che, simile a quella dell’arte, non è che lo slancio, il lancio verso l’alto dall’immenso serbatoio della vita.E forse questo è quel drappo, unico e solo, che sperimenta ed esprime, anzitutto, una condizione di fisicità. Ossia la condizione di base della vita, oltre la quale le sovrastrutture si traducono, il più delle volte, in mere proiezioni. Il drappo, allora, è esso stesso la quintessenza della proiezione, il velo oltre il quale si materializzano le correlazioni esistenziali e da sembianza specifica a una certa rappresentazione di confine che non è superflua, ma essenziale, poiché corrisponde alla sostanza dei nostri sogni. Tutto questo in virtù di un potente virtuosismo pittorico, come se l’artista, dopo le passate stagioni, fosse approdato ai confini di un campo operativo in cui la pittura urge e preme come una reazione e una corretta progettazione di futuro. Si tratta sempre di un atteggiamento della mente, come se si trattasse di un’architettura del pensiero fatta di chi opera in concreto, al fine di recuperare una positività forse smarrita, a cominciare da una seria indagine sulla legittimità dei linguaggi dell’arte, che non può prescindere da quello della pittura nel senso più tradizionale del termine, fuori da ogni snobismo culturale, da ogni moda effimera e passeggera e da ogni imperdonabile avventura. E tanto basti, per il momento, a dichiarare almeno lo scopo di questa produzione estetica, la quale, se non è priva del momento extrapittorico, è perché Pino Pingitore, da quel vecchio grafico che è, non può fare a meno, anche nell’ambiguità, di estrarre una struttura logica, un senso da anteporre a ogni operazione e che sia in grado di giungere sempre e comunque a quella sua fissa, immutabile, perenne esigenza di costruttività. E speriamo che duri. Gianfranco Labrosciano
2009, Raffaele Spada. Pino Pingitore. Luce e materia 1988-2008, Il Quotidiano della Calabria, 20 febbraio.
LUCE E MATERIA 1988-2008
La galleria Pramantha Arte di Sambiase in Lamezia Terme ha inaugurato, nei giorni scorsi, la nuova stagione espositiva con la prima inedita antologica di Pino Pingitore «Luce e Materia 1988-2008», curata da Maria Rosaria Gallo, direttore artistico della Galleria. Leggi ancora ...
«Parafrasando ancora una volta e instancabilmente Baudelaire, osserva il direttore artistico Maria Rosaria Gallo, l’invito all’antologica di Pino Pingitore è un invito al viaggio. Un viaggio multidimensionale. Un viaggio nella storia della pittura. Un viaggio nei travagli più impegnati della ricerca artistica contemporanea. Ma anche un viaggio nella storia creativa di un uomo che ha scelto l’arte come strumento d’espressione e orizzonte di senso; e dall’arte è stato scelto come infaticabile medium di manifestazione e interrogazione, senza costrizioni a rigide appartenenze, senza tema di confronto o di ritorni». Nel titolo emblematico della mostra «Luce e materia» sono riconoscibili «gli elementi eterni della pittura, gli elementi fondamentali della vita, gli elementi sostanziali del cosmo», che costituiscono l’oggetto principe della ricerca di Pino Pingitore e rappresentano i protagonisti assoluti dell’esibizione. Gli spazi della galleria Pramantha Arte ospitano la mostra strutturata in sezioni, che ricostruiscono le fasi creative dell’artista. Il punto di partenza di Luce & Materia sono gli Scrigni, tele in cui la perdita del colore lascia definitivamente spazio alla ricerca della luce, in cui l’opera diventa chiaro spazio di introspezione e interrogazione sul senso dell’esserci, coinvolgendo spesso in un gioco di specchi lo stesso spettatore. Segue la serie delle Pietre, dove l’interesse dell’artista si fa fervido e maturo verso la ricerca di una poetica legata più visceralmente al mondo culturale cui appartiene, dove l’artista torna a giocare indiscriminatamente, e senza alcuna inibizione, col colore tra espressioni di iperrealismo e astrazione totale. Con le Spettroscopie le tele di Pino Pingitore sembrano aver oltrepassato ogni limite, ogni turbamento, ogni stanchezza psicologica, ogni falso condizionamento di contesto, ogni falsa responsabilità moralistica, ogni gravità sovrastrutturale, ogni falsa dialettica locale-globale. C’è solo voglia di verità. Quella verità cosmica. Si tratta di spettri: flussi di materia luminosa resa visibile, indagata, espressa nelle tele che all’occorrenza sono diventate prisma o, meglio, reticoli di diffrazione. «Senza insistere con l’abuso di un linguaggio che afferisce il campo della fisica, non è esagerato affermare che l’ultimo Pingitore rapisce lo sguardo dell’osservatore e lo trasporta dalla terra oltre l’atmosfera, là dove tutto è luce e materia, osserva ancora Maria Rosaria Gallo, l’alienazione creativa dell’anima e della mente dell’artista nell’opera è palpabile, le linee, la costruzione e la sovrapposizione dei piani tradiscono una mente razionale, essenziale e schematica; le superfici pittoriche, lo smembramento cromatico, le luminescenze, la libertà del gesto nello spazio sgorgano dal pathos fervido dell’artista; l’esplorazione dei materiali testimonia un’illimitata capacità visionaria». «Mentre il lavoro come cosa prodotta sostanzia e scandisce il viaggio tra pietre e tessuti, specchi e riflessi, scrigni e spettroscopie, di volta in volta l’opera diventa spazio mentale, spazio emotivo, territorio, atmosfera, conclude il direttore artistico, l’opera diventa i luoghi in cui il reale fuoriesce come profondità, piega, gravità, fluidità, fluttuazione, svelando il reale piano in cui Pino Pingitore si muove: un piano di immanenza, dove arte, fisica e metafisica si incontrano come partecipazione dell’energia cosmica». Raffaele Spada
2012, Anna Scorsone Alessandri. Testo Astratto fluido
ASTRATTO FLUIDO
Dopo 23 anni dall'ultima personale al Palazzo della Provincia con “L'evoluzione dei segni” a cura di Toti Carpentieri, Pino Pingitore espone a Catanzaro, presso la Galleria Arte Spazio, una mostra dal titolo “Astratto Fluido”
Pino Pingitore, nasce a Spezzano Sila (Cs) nel 1953, vive ed opera a Catanzaro.Leggi ancora ...
Dal 1976 alterna l’attività di progettista grafico a quella artistica. Si avvicina sempre al mondo che gli è più congeniale e più vicino per estrazione culturale, quello della sua stessa terra, la Calabria. È uno dei promotori del movimento “Ulisse”, teorizzato dal critico d’arte Gianfranco Lambrosciano. Astratto fluido si presenta come la sorpresa pittorica che Pino Pingitore ha riservato per questo 2012.
La mostra circa 30 lavori (di medie e grandi dimensioni) nei quali si apprende l'elaborazione e la maturità espressiva che l'artista ha perseguito e conseguito negli ultimi anni. Claudio Alessandri scriveva in suo testo: “…Delle precedenti esperienze artistiche è lo stesso Pingitore che ci consegna una lucida testimonianza di una elegante prosa; tra l’altro, leggiamo: “Dopo un periodo di astrattismo geometrico, con sconfinamenti nel neoplasticismo, dovuto anche al mio lavoro di grafico, cominciavo ad avvertire l’esigenza di operare in una direzione meno rigida, meno meditata, più spontanea, che fosse cioè frutto di una liberazione, di una esplosione interiore. Quasi naturalmente la ricerca cominciò ad evolversi verso poetiche neo informali, …”. …Nelle opere di Pingitore è subito evidente la ricerca “commossa” della luce, elemento caratterizzante ed indispensabile per fare emergere trasparenze cromatiche negate ad una tavolozza di traboccante cromia, probabilmente accattivante ma priva di quell’istinto creativo che fa di un buon pittore, un artista, capace di scorgere l’irraggiungibile, dono impagabile di scrutare lucidamente il “regno” della propria fantasia. … Il “sortilegio” operato da Pingitore ci consegna un mondo ritrovato, sottratto ad una involuzione frutto di pulsioni distruttive di una armonia primigenia consegnata agli insulti di un frainteso modernismo che ha inaridito le coscienze di una umanità tesa, ottusamente, verso valori di sola apparenza, vuoto simulacro rimbombante il “nulla”, negazione di quel messaggio di “nuova vita” che Pingitore, con le sue opere, insinua quale “urlo” inquietante, “squassante” una mortalità messaggera di cristallizzante immobilità e di insensato oscurantismo…” Anna Scorsone Alessandri
Una pittura smagliante di colori. I rossi violenti si ingentiliscono nell’incontro con azzurri pacati, nero e verde si susseguono, si sovrappongono in un lavoro complesso e difficile da raccontare.
2012, Ghislain Mayaud. Dal catalogo della mostra Energia Alta. Centro Satya, Catanzaro
ENERGIA ALTA (AUTOBOMBA)
…Con la presenza di Pino Pingitore, l’energia del soffio tradotta sulle tele sposta orizzontalmente la fluidità della materia, come accadeva nella sua produzione artistica antecedente, cancellando ogni fisionomia legata al reale: un travolgente iperrealismo maniacale plasma ogni gesto liquefatto dal “day after”. Leggi ancora ...
Ghislain Mayaud
2012, Maria Rosaria Gallo. Testo mostra personale L'intra-realismo di Pino Pingitore, K di Cuori, Catanzaro
ASTRATTO FLUIDO. L’INTRA-REALISMO DI PINO PINGITORE
Astrazione. Lʼantefatto
Pochi termini nella storia dellʼarte e del pensiero sono stati così discussi e contestati come quello di “astrazione”, fino al punto da arrivare a indicare linguaggi artistici tra loro diversi e contrastanti. Leggi ancora ...
Fin dai tempi di Van Gogh, artisti, critici, poeti e filosofi si arrovellano nellʼutilizzo di un termine che irrimediabilmente fa riferimento alla realtà: o per trascenderla, o per penetrarla completamente; o per ovviarla nella pretesa conoscitiva, o per coglierne la più intima ed essenziale struttura. Il tentativo è, ovviamente, sempre uno: catturarla. Ad un certo punto linee, forme e colori si svincolano da ogni ordinaria esperienza visiva e diventano i protagonisti assoluti della pittura, in una lotta di dominio tra la supremazia espressionista e simbolica del colore e il primato rigoroso e strutturale delle forme, la morbidezza fluttuante della luce e la rigidità cristallina delle linee; nello stesso tempo la storica querelle tra arte mimetica e arte creatrice, rappresentazione oggettiva e esternazione soggettiva, realismo esteriore e realismo interiore viene ricondotta - entro gli sconfinati limiti della tela - ad interrogare il valore intrinseco di un linguaggio puro. Astratto fluido. La sintesi Con Astratto fluido Pino Pingitore giunge ad una maturità espressiva profonda e raffinata, dove converge la sua quarantennale esperienza di esploratore di tecniche e linguaggi visuali, con un risultato pittorico di notevole sintesi, in cui rigore, manualità, pensiero, conoscenza e sensibilità si mescolano fino a confondersi, producendo atmosfere spaziali vive e vibranti, capaci di restituire autonomia allʼimmagine pittorica nellʼunione formale di elementi moderni e tradizionali; capaci di coinvolgere lʼimmediata attenzione dellʼosservatore ammaliandone gli occhi con un ritmo musicale incantato, rievocando lʼobiettivo pittorico del grande Kandinsky: “far passeggiare lʼosservatore dentro il quadro, costringendolo a dimenticare se stesso e immergersi nel dipinto”; capaci, anche, di costituirsi come metafora visuale di un modus contemporaneo che identifica la sua pulsione vitale in una continua liquefazione di contorni e confini, palesando - nellʼimpressione visiva - la condizione in cui è calato ogni singolo individuo e disvelando - per dirla con le parole di Einstein - la dinamica essenza del divenire dietro la statica apparenza dellʼessere. Astratto fluido. Il linguaggio visivo tra tradizione pittorica e modernità tecnologica La luce è lʼelemento cruciale della pittura di Pino Pingitore. Il solvente naturale con cui lʼartista crea e discioglie colore, ritmo e spazialità in una unica atmosfera. Rigore formale e dispersione visiva trovano un punto dʼincontro nella dissolvenza a cui Pingitore sottopone lʼimmagine, attraverso lʼaccurata e insolita combinazione di procedimenti, tecniche e idee apparentemente contrastanti tra loro. La pittura sulla tela è preceduta dallo studio cromatico al computer attraverso programmi specialistici di grafica; mentre la trasposizione pittorica tradisce un approccio artistico che guarda alla pittura maestra del Rinascimento. Pittura timbrica (in cui ogni colore esprime la sua personalità e si esalta nel contrasto con lʼaltro) e pittura tonale (in cui ogni punto del dipinto è imbevuto della stessa quantità di luce) convivono e si alternano divergenti nella medesima atmosfera, privata da linee di contorno, come vuole lo sfumato: il procedimento chiaroscurale di Leonardo applicato al colore. Da queste combinazioni sorge lʼAstratto fluido di Pino Pingitore. Unʼastrazione che si presenta iper-realistica nel dissolvimento fluido dellʼimmagine che coglie il carattere cinetico delle cose. Unʼastrazione figlia di uno sguardo acuto, che penetra la materia e ne fotografa lʼenergia nel suo fluire, nel suo vivere. Unʼastrazione che è Astratto fluido. lʼIntra-realismo di Pino Pingitore. Maria Rosaria Gallo
2014, Alberto Fiz. Testo catalogo mostra Permanenze 1974-2014, Gruppo Mauthausen, Museo Marca, Catanzaro
L’AVANGUARDIA A CATANZARO
E così Catanzaro scoprì di essere all’avanguardia. La città dei tre colli e dei due mari, che aveva passato indenne gli anni sessanta, finisce, quasi senza accorgersi, nel turbine dei settanta grazie ad una pattuglia di otto giovani incoscienti quanto temerari decisi a compiere una vera e propria rivoluzione culturale, facendo dell’arte contemporanea uno strumento di carattere sociale e politico, ancor prima che estetico. Leggi ancora ...
Alberto Fiz
I guerrieri dell’arte, che nel 1974 confluiscono nel Gruppo Mauthausen, sono Antonio De Fabritiis (purtroppo scomparso nel 1997) e Antonino Martelli, insegnanti del Liceo Artistico di Catanzaro; Franco Ferlaino e Pino Pingitore, che frequentavano l’ultimo anno dello stesso Liceo Artistico; Pino Lavecchia e Franco Tolomeo, iscritti al primo anno all’Accademia di Firenze; Paolo Pancari e Corrado Rotundo, iscritti al primo anno all’Accademia di Catanzaro. Professori (appena due) e allievi, spesso poco più che maggiorenni, uniti con lo scopo di trasformare la loro città in un centro propulsivo di aggregazione dove l’arte costituisca un elemento di dibattito e di consapevolezza evitando ogni forma di retorica accademica.
“Le proposte alternative sulle quali si basa l’azione del gruppo, nascono da una analisi etico-politico-artistica, dell’ambiente in cui si opera. (…). La nostra azione è alternativa per un pubblico che non ha mai visto niente di diverso del ‘piccolo formato impressionista’. È alternativa ‘di sistema – di lavoro’ per tutti gli artisti catanzaresi che vorranno, e speriamo siano in molti, prendere coscienza della loro vera funzione in una realtà che ha bisogno di loro”.
L’appello viene lanciato nel 1974 da A.G., il giornale artistico-politico-d’attualità stampato in ciclostile e di cui sono usciti solo due numeri, sufficienti per cogliere la vera anima del Gruppo.
Nell’esperienza completamente autogestita di Mauthausen non mancano le ingenuità e una teorizzazione non sempre all’altezza degli obiettivi, ma è bene non dimenticare l’azione pionieristica compiuta dai giovani ribelli che si muovono in un contesto territoriale privo di riferimenti con molte lacune dove l’unico artista catanzarese riconosciuto a livello nazionale e internazionale era Mimmo Rotella, da tempo lontano dalla sua città.
Appare, poi, evidente la scarsità dei luoghi di formazione con il liceo artistico che nasce solo nel 1968, sei anni prima dell’Accademia. Non esiste un museo (per questo bisognerà attendere nel 2008 la nascita del MARCA), le gallerie hanno una vita breve con un’attività spesso sporadica e l’unico spazio espositivo era il Palazzo della Provincia di Catanzaro. In compenso, gli artisti si danno un gran da fare e proprio nel 1971 Mario Parentela fonda a Catanzaro, insieme a Franco Magro, lo studio d’arte “Il Meridione” che diventa un punto di riferimento anche per i più giovani.
Nonostante la vitalità del cinema (in città c’erano ben cinque sale cinematografiche) e del teatro, a Catanzaro si percepisce una forte arretratezza culturale con uno scarso scambio d’informazioni. “Nel mondo di internet e dei social network tutto ciò sembra paradossale ma allora per noi, giovani artisti squattrinati, visitare la Biennale di Venezia era già un’impresa”, ricorda Pino Pingitore che, insieme ai suoi compagni d’avventura, visita per la prima volta la kermesse lagunare nel 1970 quando l’allestimento tradizionale viene radicalmente modificato dalla mostra Proposte per un’esposizione sperimentale che offre una serie di ambienti intorno ad alcuni temi di particolare attualità come Arte e società, Produzione, Analisi del vedere, Gioco/Relax a cui si aggiunge un grande ambiente indicato come Spazio della stimolazione percettiva. Quell’anno, poi, il Padiglione italiano ospita le installazioni di Nicola Carrino, Sergio Lombardo, Giulio Paolini e Agostino Bonalumi.
Tutto questo incide profondamente sulla formazione del futuro Gruppo Mauthausen che inizia la sua storia già nel 1971 quando Franco Tolomeo detto Pedro, Corrado Rotundo detto Manuel (Pedro e Manuel sembrano i soprannomi di due guerriglieri di Che Guevara) Pino Lavecchia, Pino Pingitore e Paolo Pancari affittano una soffitta piuttosto malconcia nel rione Stella di Catanzaro per dare vita al Gruppo IV Marzo, un nome che, come ricorda Rotundo, ”non era riferito a nessuna ricorrenza importante, semplicemente si trattava del giorno in cui decidemmo di iniziare quell’esperienza comune che, pur nella sua ingenuità, costituì il primo tentativo, nella nostra città, di superare l’individualità del lavoro pittorico, attribuendogli un senso collettivo.”
A posteriori, il 4 marzo 1971 è diventata una data importante anche se l’episodio appare quasi del tutto sconosciuto persino a Catanzaro che proprio quel giorno fa il primo passo verso l’avanguardia affrontando, sia pure in maniera embrionale, un’ipotesi di arte pubblica coinvolgendo direttamente il tessuto sociale della città.
I giovani artisti del IV Marzo, infatti, avevano deciso d’invadere pacificamente la Galleria Mancuso, il nuovo centro commerciale della città, proponendo, senza alcuna mediazione, le loro opere ai passanti Non si voleva imitare i prodotti per turisti di Venezia o di Firenze, ma si tentava la strada della sperimentazione facendo della Galleria un luogo di confronto a cielo aperto. L’arte scendeva in piazza inserendosi in un contesto totalmente inedito e coinvolgendo il pubblico in un happening quotidiano dove la pittura costituiva il punto di partenza di un dibattito allargato. I nuovi operatori estetici non avevano più la necessità di esporre in un luogo ufficiale, ma potevano intervenire direttamente sul territorio attraverso un’operazione dal basso in grado di formare persino un micro collezionismo.
Del resto, l’idea che l’arte fosse destinata a conquistare nuovi territori è tipica di quegli anni fortemente ideologici dove le parole d’ordine sono comunicazione di massa e cultura di classe. Già nel 1967 a Torino Michelangelo Pistoletto realizza alcune azioni collettive al di fuori della galleria e in occasione della mostra Con-temp-l’azione lungo le strade della città che uniscono le tre gallerie Sperone, Stein e il Punto, porta a passeggio un’enorme Sfera di Giornali coinvolgendo artisti e curiosi. Nel 1968 si svolge ad Amalfi la manifestazione Arte povera-Azioni povere promossa da Marcello Rumma e in quell’occasione Germano Celant (l’arte povera era nata ufficialmente un anno prima) scrive: “oggi è l’esigenza di identificarsi con l’azione e il processo in corso, la tensione ad attivizzare la dimensione psicofisica…agire e togliere energia, mescolarsi alla realtà, attraverso il proprio corpo e la propria dimensione mentale, sino all’annullamento totale…” A Catanzaro la tribù dei giovanissimi sente il vento del cambiamento e si mette in marcia, sia pure nel totale isolamento di un’esperienza che non supera i confini cittadini. Troppo giovani, troppo inesperti e forse troppo idealisti i nostri eroi, per far sentire la loro voce al di fuori delle mura domestiche. Ma non c’è dubbio che si sia attuata una rivoluzione silenziosa che merita di essere analizzata con scrupolo: “In quegli anni vivemmo una congiuntura particolare nella quale si prefigurò l’illusione che il mondo stesse per cambiare. I mass-media promettevano di accorciare le distanze, la marcia trionfale dello sviluppo avrebbe livellato le disparità. Era inutile inseguire il progresso, era lui a muoversi verso di noi. Bastava aspettare ancora un po’ e intanto darsi da fare. Nonostante nulla garantisse queste promesse noi ci credemmo,” ricorda Rotundo.
Come ogni esperienza collettiva che si rispetti, anche quella di Catanzaro cresce e si sviluppa, Dopo l’happening in Galleria si passa, nel 1973, a una mostra nel Salone del Palazzo della Provincia di Catanzaro intitolata semplicemente Pittura, scultura, scenografia e fotografia dove si mettono in fila le tecniche senza alcuna distinzione di sorta, equiparando la pittura alla scenografia. L’intendimento era quello di superare ogni retorica distinzione tra high and low creando un piano orizzontale dell’esperienza estetica. La rassegna rimane pur sempre una collettiva di gruppo e tra i pochi commenti della stampa locale, si rammenta quello di un giornalista che tenta una superficiale analisi critica scrivendo: “La coraggiosa pattuglia che ha dato vita alla manifestazione in cui, senza dissacrazioni della tradizione, si colgono elementi rinnovatori e spontanei che hanno ancora bisogno di un complemento del linguaggio, diremmo anzi della sintassi artistica, ma che sin d’ora appalesano aspetti validissimi, degni di essere seguiti ed incoraggiati”.
Ma il vero scatto in avanti si ha nel 1974 quando il Gruppo, finalmente al completo, si ripresenta al Salone della Provincia con un’opera collettiva supportata da un manifesto teorico e un nuovo nome che passa dal neutro IV Marzo al ben più connotato e provocatorio Mauthausen che fa riferimento al famigerato campo di concentramento nazista ed evoca una delle maggiori tragedie dell’umanità. Un pugno nello stomaco per un progetto che partiva da un ossimoro: “La violenza oggi…ed una ipotesi di pace” dove il tema assume differenti significati: da un lato le guerre e le distruzioni di un secolo tragico e dall’altra la violenza insita in una società opprimente, basata su ciniche logiche commerciali e sulla mortificazione dell’individuo. Di fronte a tutto ciò, l’arte deve prendere posizione impegnandosi nella denuncia e nella trasformazione del sistema.
Nel manifesto di Mauthausen è scritto: “Oggi purtroppo si vive nell’ambiguità e nello sfruttamento, messo in atto da sistemi di potere e da false informazioni di stampa che non vogliono far conoscere la realtà che ci circonda. Da ciò la denominazione del Gruppo Mauthausen”. Ma è nella presentazione della mostra che si fa cenno all’aspetto più importante: “Crediamo nell’azione e nel lavoro di gruppo come forza d’urto che sola può costituire il veicolo per mezzo del quale possa avere inizio un cambiamento radicale….”
Il contenuto eversivo dell’arte costituisce il filo rosso di molte esperienze proposte prima e dopo lo spartiacque rappresentato dalla rivolta studentesca. Sul numero 5 di Flash Art Germano Celant pubblica nel 1967 il celebre testo Arte Povera. Appunti per una guerriglia: “L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere, colpire” e conclude il suo pamphlet scrivendo “siamo già alla guerriglia.”
È paradossale, poi, osservare come proprio quel sistema contro cui l’arte povera combatteva, ha costituito nel tempo il suo maggior sostegno con i musei tra i maggiori acquirenti. Ma allora questo è il clima che si respira. Con più ironia Pistoletto paragona l’artista ad un animale in gabbia e tra il 1968 e il 1970 organizza una serie di eventi con un gruppo denominato Lo Zoo. “La cosiddetta civiltà ha relegato ogni animale nella sua gabbia. I meno pericolosi, più docili e sottomessi li ha messi in grandi recinti comuni: le fabbriche, le case popolari, gli stadi sportivi (…) Gli artisti sono isolati nelle Biennali di Venezia, nei teatri, nei musei e nelle manifestazioni organizzate. (…) Ora noi sappiamo di essere Lo Zoo,” affermava l’artista nel 1969. Quanto a Harald Szeemann, nel 1972 descrive così la sua Documenta 5, una delle manifestazioni più influenti dell’epoca: “La mia mostra è come il covo di un terrorista intento a distruggere l’autonomia dell’opera d’arte.” Non a caso la kermesse aveva come sottotitolo Befragung der Realität – Bildwelten heute (Interrogazioni sulla realtà-mondo delle immagini oggi).
A Catanzaro, insomma, sia pure con un po’ di ritardo e nel totale isolamento, emergono le grandi questioni che agitano il sistema internazionale dell’arte. Il Gruppo Mauthausen, poi, ha il merito di proporre nel 1974 un’opera collettiva realizzata da otto artisti di cui nessuno ha diritto di primogenitura. È un fatto assai raro anche nell’ambito dei movimenti nati tra gli anni sessanta e settanta dove le esperienze di gruppo non hanno mai sacrificato le singole individualità. In questo caso il modello è più vicino a quello del mondo teatrale e in particolare alle sperimentazioni del Living Theatre.
L’opera di Mauthausen nasce da un lungo percorso che dura quasi un anno fatto d’incontri, dibatti, morzeddi, piccantini, sigarette e vino a volontà (il tutto è documentato da un diario che è un efficace spaccato generazionale e avrebbe potuto essere la sceneggiatura perfetta di Ecce bombo, il film realizzato da Nanni Moretti nel 1978). Ne scaturisce un’installazione multimediale (allora si usava il termine intermediale) che affronta il tema della violenza e soprattutto dell’alienazione con una serie di anonimi manichini (come non pensare a Giorgio de Chirico e soprattutto a Mario Ceroli?) collocati lungo un percorso frastagliato dove non mancavano gabbie e una trincea con il filo spinato. Lo spettatore è parte in causa di un processo emozionale che coinvolge la sfera fisica e sensoriale trasformando radicalmente il contesto ambientale. In tutto ciò s’inserisce la componente filmica con documentari originali sulla guerra del Vietnam e l’esplosione atomica di Hiroshima. Ma non bisogna dimenticare l’ipotesi di pace suggerita dal manifesto del Gruppo Mauthausen che si sviluppa intorno ad una performance un po’ hippie un po’ new age dove gli otto artisti s’immaginano come personaggi provenienti da luoghi e culture differenti che, intorno al fuoco, sulle spiagge della Roccelletta, inscenano la solidarietà e il dialogo tra i popoli. L’evento viene documentato da una serie di diapositive proiettate nell’ambito dell’installazione accanto ai filmati storici di violenza e di distruzione rimescolando ulteriormente gli accadimenti in un blob visivo assai complesso dove andavano a braccetto le paure e le speranze dei nostri giovani.
L’opera ha compiuto quarant’anni nel 2014 e proprio in quest’occasione è stata riproposta al MARCA non per rievocarla come reperto archeologico di un passato perduto, ma per coglierne la stretta aderenza all’oggi in un contesto dove quei giovani ormai brizzolati, entrati nella vita da porte diverse non tutte legate all’arte, hanno ancora molto da dire.
Sebbene pochi se ne siano accorti, nel 1974 a Catanzaro si sono aperti nuovi orizzonti per l’arte contemporanea e i linguaggi delle avanguardie, che apparivano distanti di almeno un secolo, si sono improvvisamente avvicinati. Quegli artisti, poi, hanno posto una serie di questioni etiche che appaiono oggi di particolare significato come la responsabilità verso il proprio territorio, la forza d’urto del cambiamento, il superamento degli individualismi, la ricerca di un dialogo aperto e libero da ogni forma di pregiudizio. Certo, non è facile spiegarsi per quale ragione una pagina così importante per la storia della città sia stata a lungo dimenticata (una prima rievocazione si è svolta nel 2008 al Complesso Monumentale del San Giovanni a Catanzaro).
Con il senno di poi si può ascrivere questo oblio ad una forma di autolesionismo, troppo spesso presente in questa città, come in molti luoghi del Mezzogiorno. Ma va detto che i giovani di allora erano inguaribili visionari che nel loro progetto non avevano tenuto conto del sistema che li circondava. Forse erano troppo giovani per farlo. Un’operazione di quel tipo, per avere un futuro, necessitava di una teorizzazione lucida, di un collezionismo attento, di finanziatori, d’istituzioni pubbliche capaci di coglierne il messaggio, di qualche ingenuità stilistica in meno, nonché di una relazione stretta con altre esperienze di carattere nazionale e internazionale. Invece, nemmeno a Napoli, il luogo più propulsivo del Mezzogiorno, si sapeva che il gruppo Mauthausen esisteva. Del resto, persino la stampa di Catanzaro li ha pressoché ignorati e la loro esperienza si è consumata nella solitudine e nell’utopia senza che ne venissero colte sino in fondo le potenzialità.
Un tentativo di espansione, per la verità, ci fu e il gruppo Mauthausen nel 1975 fece domanda per entrare alla Quadriennale di Roma con un progetto installativo che aveva come soggetto Don Chisciotte. Ma la commissione, presieduta quell’anno da Pericle Fazzini, lo scartò immediatamente. I nostri un po’ donchisciotteschi lo sono stati per davvero ma chi pensava che tutto fosse finito si sbaglia e a distanza di quarant’anni il gruppo Mauthausen è risorto proprio al MARCA con una nuova installazione, anzi con una “i-stanza”, come l’ha chiamata Franco Ferlaino ironizzando sull’uso smodato della tecnologia.
Questa volta sono state messe da parte le questioni strettamente ideologiche e politiche per concentrarsi sulla componente più specificatamente introspettiva. Al MARCA è stato proposto un viaggio nel cosmo che riguarda da vicino l’individuo e il suo desiderio di libertà. Mauthausen 2.0, tuttavia, non ha perso la carica provocatoria e nei mesi che hanno preceduto la mostra, gli ex giovani sono tornati a incontrarsi, a scrivere progetti e a tenere diari come allora. Tanti anni in più e molte illusioni in meno ma lo spirito ribelle è rimasto immutato. E l’avventura continua.
2014, Eugenia Ferragina. L'arte per trasformare il sistema. Gazzetta del Sud, 31 maggio
2016, Gianfranco Labrosciano. Catalogo Astratti fluidi
Mi pare che l’arte di Pino Pingitore, che qui si manifesta come atto finale di una lunga ricerca di smascheramento e di scoperta di non ancora esperite possibilità artistiche, sia da collocare all’interno del cosiddetto paradigma della complessità per comprenderne la natura in relazione al rapporto tra l’esigenza analitica e la libertà individuale nell’era della modernità liquida 1. Leggi ancora ...
Resta da vedere, in quest’ottica, cosa rappresenti il solido e cosa il fluido, giacché, se nell’epoca della modernità liquida il primo è rappresentato dallo spazio e il secondo dal tempo, che liquefa la forma, nell’arte ciò che liquefa la forma non è il tempo, bensì la luce. Un rapporto azzardato, me ne rendo conto, quello dell’arte con la modernità liquida, ma se un tratto caratteristico dell’arte è l’inarrestabile tendenza alla modernità, non è forse l’intera struttura sociale - tutte le strutture della società - che, liquefacendosi, apre una nuova fase della storia umana? L’arte, allora, come la sociologia complessa della conoscenza, pur recando necessariamente l’impronta dell’hic et nunc permette di concepire, divenendo trans-storica, una meta punto di vista che si riflette altrove, superando il tempo e lo spazio. Con una sorta di lirismo cromatico aereo, etereo e leggero, Pingitore realizza in forma dinamica campiture che sembrano registrate su partiture sonore al passo di un ritmo pittorico che, lievitando, dialoga in un’atmosfera carica di un ambigua sensualità organizzata in fasci di colore, accenti d’ombra e tinte evanescenti di chiaroscuro in uno spazio che diventa respiro ampio di una struttura semplice ma articolata che trova, per misteriose interazioni con la luce in una composizione fondatamente astratta, l’amalgama, l’alchemica combinazione tra il rigore del disegno e l’impalpabile irrealtà del sogno. Come sollecitata da un movimento interno che la definisce e la scioglie, e armonizzata nel rapporto pittorico tra vuoti e pieni, la forma propone una molteplicità di risonanze e l’immagine che ne risulta si risolve, dal punto di vista del riguardante, in un’idea al contempo di dilatazione e di persistenza, giacché l’incastro dei colori in una sorta di collage pittorico produce la fusione tra antico e nuovo in un racconto ideale di tradizione e modernità condotto non solo in continuità con passate ed elaborate stagioni della storia dell’arte, ma in coerenza e dall’interno dello stesso linguaggio stilistico dell’artista che qui giunge a maturazione in una realtà pittorica inusuale, persuasiva e conchiusa. In realtà dietro quest’opera c’è una lunga storia di analisi e corteggiamento, un serrato confronto con poetiche artistiche del passato che si è trasformato, attraverso una paziente e lenta sedimentazione, in una cifra pittorica autonoma che ha una vita autonoma e una propria identità. Per questa via risalta, direi, una semplice complessità che si libera e si apre, nel senso che da un canto si affranca da ogni tentazione citazionista e dall’altro scopre, come conseguenza del combinato disposto fra confronto, continua ricerca ed esercizio, la qualità di una produzione autonoma e clamorosamente inedita. Perciò è necessario procedere preliminarmente ad un’analisi delle “fonti” artistiche da cui trae origine la pittura qui considerata. Ma non solo di questo si tratta, perché a ben vedere i diversi passaggi fra un colore e l’altro, meglio, fra un blocco di colore e l’altro, non sono netti, ma delineati, preparati, per così dire, da ampi ed estesi brani di chiaroscuro che se da una parte costituiscono di per sé un’audace e innovativa trovata nel genere pittorico dell’arte astratta, la quale si svolge appunto, per campiture nette, senza passaggi graduali e senza ombre, dall’altra si agganciano al “serrato confronto” cui facevo cenno e si riferiscono, in vista di una sua emancipazione, alla costante ricerca del linguaggio stilistico dell’artista. Mi riferisco, in particolar modo, a quel certo caravaggismo adombrato e così tanto elaborato in passati cicli pittorici, per descrivere i quali io stesso scrivevo ormai nel lontano 1996 2: “…il caravaggismo inteso come linea di pensiero che attraversa un attitudine pittorica specifica, l’analisi e lo studio della luce, di una luce fatta di cause che producono effetti nell’incontro con un opera che si rivela oscura, in certi casi sovrabbondante, ma in cui ci si installa dentro per principiare un dialogo costante.” E più avanti, scrivendo delle penombre, della morbida sensualità dei toni nell’arte di Pingitore, dell’inclinazione dei piani e degli effetti prospettici del colore, mi riferivo alla luce incidente che faceva assumere trasparenza e valore cromatico alle ombre stesse, che, esaltando i volumi in funzione di rilievo plastico si ponevano come caratteristiche strutturali dell’opera 3. E quando, nel prosieguo di una ricerca sempre più incentrata sulla luce, l’accentuazione psicologica degli effetti luminosi liberava l’intavolazione astratta e la tessitura geometrizzante dell’opera (Fig. 1) in metafore di rinvio rivolte al riguardante attraverso la sovrapposizione di “veli” materici (Fig. 2) in elementi concettualizzanti esistenti anche al di fuori dell’opera stessa - come quelli del fruitore che, sollevando mentalmente i veli procedeva a un progressivo svuotamento della propria personalità - era pur sempre la luce a postulare le scene simboliche fino alla materializzazione di segni e simboli in vista di ulteriori svelamenti. E si che il fruitore, sollevando i successivi, veri e propri veli “entrava” nel mistero, nel rimbalzo dialettico tra consumo immediato dell’evento estetico e passaggio diretto nell’idea attraverso un‘energia psicologica attivata da mentali proiezioni luminose. Ma si trattava di veli, o drappi (Fig. 3) per essere ancora più precisi, che pur esprimendo una certa condizione di fisicità nell’alveo di passate esperienze neo-avanguardistiche degli anni ’60 e ‘70, corrispondeva nell’esigenza di recuperare, nelle velate, morbide piegature dei veli, la pittura nel senso più classico e a conferire ad essa, attraverso un ritorno al chiaroscuro e ai valori tonali, il carattere del primato. E siamo per questa via ai fluidi, anzi, agli astratti fluidi, come li chiama il Pingitore forse per indicarne il gioco delle velature, le liquide trasparenze, il flusso dei chiaroscuri, ancora una volta, nell’altalenante trapasso e trascorrere da un colore ad un altro. La memoria del passato e il segno, come dirò, di un inalienabile prodotto dello Zeitgeist, lo spirito del tempo. E mi spiego. All’immagine l’artista arriva utilizzando, con notevole esercizio dovuto anche al suo lavoro di grafico, tutte le possibilità di un personal computer, che già per questa azione proietta su un monitor un flusso di immagini liquide che, sebbene virtuale, consente di giungere alla totale astrazione. Nel work in progress telematico si dispiega una serie infinita di immagini in un flusso dinamico, vibratile e leggero in cui il rapporto uomo-macchina sospende, questa volta si, il tempo, nell’attimo in cui l’artista isola il particolare di un’immagine qualunque che lo colpisce, e, ingrandendola e ingigantendola interagisce con essa fino a trasportarla sulla tela e a renderla modello di base che principia il suo lavoro. Così, come una molecola o una particella di atomo visti al telescopio, il particolare di un’immagine colto in digitale diventa scaturigine emozionale per l’artista che trae linfa, dunque, per l’arte sua, dall’insieme delle conoscenze e dei saperi tecnologici che costituiscono il linguaggio della modernità, ovvero lo Spirito del tempo. Come a dire, il motore della ragione fra bisogno ed emozione, e mentre il software calcola, l’uomo liberato dalla ragione avverte le emozioni e sente. Ed ecco, allora, che l’emozione produce un pensiero astratto che si fa veicolo di una struttura che depositata sulla tela vibra di un interno palpitare come corpo dell’artista e coscienza di sé, come riflesso di ciò che succede nel suo organismo in modo che ogni modificazione del corpo della struttura, di ciò che diviene sulla tela, dalla minima variazione del colore alla minima forma plastica, non è in effetti che la variazione dei suoi stati emotivi in relazione con l’oggetto considerato 4. Per questo, forse, più che di astratti fluidi potrebbe parlarsi per queste opere di “corpi astratti”. È il segno di un’arte in movimento, fluttuante, energetica e latente, pronta a liberarsi al primo accento dell’entusiasmo liberato dall’emozione, e ciò di cui si è discusso è solo un’occasione scatenante dello shock inaspettato che ci prende davanti a queste opere di Pingitore. Perché alla fine non importa il motivo dell’evento scatenante, ma l’ebbrezza della visione, specie se è capace di percorrere il corpo sociale e attraversarlo in un’espressività errante e vagabonda di gioia5 come forse solo all’arte è dato. Gianfranco Labrosciano 1 Z. Bauman, Modernità liquida. Laterza, Bari, 2011.
A cominciare da quella forma-colore che mi pare in una certa misura sia da richiamare nell’opera di Pingitore, almeno per quanto attiene all’incidenza di una pittura in cui risaltano, per contrasto, i volumi plastici e sostanziali.
In ogni caso si tratta di opere astratte di una forte consistenza energetica in cui la luce, nell’ebrezza spiazzante di un’atmosfera effimera opera una vibrazione cromatica nel gioco lucido di una griglia, una pellicola fluida e trasparente sulla quale insiste un laboratorio di memoria e di segno.
Naturalmente, questo per quanto attiene all’intuito, all’intelligenza per così dire precorritrice dell’opera, perché una volta dato inizio a essa sta all’estro e all’abilità tecnica dell’artista il compito di finirla. Ed è appunto ciò che Pingitore fa utilizzando il bagaglio tecnico della sua sapienza pittorica, graduando le tinte, giustapponendo i colori e soprattutto stendendo fra gli uni e gli altri dei “veli” di chiaroscuro che costituiscono, a mio avviso, la novità, il passo in avanti nella sua ricerca astratta che qui consegue, come ho detto, un suo carattere autonomo e autoreferenziale.
Sicché la composizione orienta una struttura volatile, fragile e incerta che sembra decomporsi, dove pare che la memoria si perda insieme al controllo dello stesso artista, che invece ricompone l’immagine medesima che fluttua disperdendosi e rimodellandosi di continuo sulla tela in maniera tale che l’opera diventa, come in una società liquida, aperta e incerta.
2 Gianfranco Labrosciano, Pino Pingitore. Edizioni Gradiva, 1996.
3 Idem
4 A.Damasio, Le sentiment mème de soi, corps, èmotions, coscience. Odil Jacole, Paris. 1999.
5 Michel Lacroix, Il culto dell’emozione. Edizioni Vita e pensiero, Milano, 2002.
2018, Giorgio Bonomi. Testo La densità dell'astrazione fluida
LA DENSITÀ DELL’ASTRAZIONE FLUIDA
Prima di addentrarci nell’analisi dei lavori di Pino Pingitore che costituiscono una nuova (nel senso di “sviluppo”, non di “radicale cambiamento”) fase del suo percorso artistico, opportunamente chiamata “astrazione fluida”, conviene chiarire tutti i termini, e i concetti, relativi a questa definizione, anche a costo di essere un po’ didascalici.Leggi ancora ...
Nella storia dell’arte, dalle avanguardie ad oggi, “astrazione” non significa “non avere rapporti con la realtà”, né ha come contrario la parola/concetto “concretezza”: infatti l’astrattismo è stato anche definito, da molti suoi protagonisti, – e ci sono musei che si chiamano con questa dizione – “arte concreta”. “Concreto” è un termine che deriva dal latino “concretus” che significa “denso”, “coagulato”, “duro”, ed ha, in questo senso, come suo contrario anche “fluido” che, a sua volta derivato dal latino “fluere”, significa “scorrere” e che “non può dare una forma determinata”.
Queste poche righe di filologia – ricordiamo che, come affermava Benedetto Croce, questa disciplina era alla base, il primo momento, del giudizio (storico) – ci aiutano a comprendere il titolo del nostro scritto.
Che la pittura di Pino Pingitore sia pittura astratta, secondo il senso comune cioè che non ha nessun riferimento realistico o figurativo, è evidente (anche se vedremo come questi lavori provochino suggestioni naturalistiche), ma lo è anche nel senso sopraesposto, cioè è una pittura concreta, solida, densa (di colori, immagini e contenuti), pur tuttavia, allo sguardo, vediamo questa “densità” scorrere, fluire, scivolare dall’alto al basso, da sinistra a destra e viceversa, sulla tela. I colori sempre plurimi si addensano su una tonalità prevalente, evidentemente ricordando la parsimoniosa cromia, se non la vera e propria monocromia, dell’avanguardia storica, senza però rinunciare alla varietà timbrica, per cui i colori, come in una composizione musicale, passano dall’uno all’altro, si confondono, si distinguono, si armonizzano o si contrastano, come ad esempio avviene nell’accostamento dei chiari e scuri, dei bianchi e i neri.
Se il pennello agisce con un movimento ortogonale, in su e in giù o da un lato all’altro del quadro, il “segno” risultante non si irrigidisce mai nella linea retta assoluta – come voleva il grande Mondrian, qui giustamente “tradito” per certi aspetti, ma proprio perché i figli devono, ad un certo punto, “rinnegare” i padri – bensì traccia strisce o, meglio, bande di colore “tremolanti”, indefinite, con i bordi curvilinei e sinuosi che scivolano come le onde di una superficie acquatica, sia essa mare, lago o fiume, o come i barbagli provocati dalla luce del sole quando luccica sull’acqua increspata.
La luce, infatti, si pone come elemento fondamentale di tutte queste recenti opere dell’artista. È una luce che appare non come conseguenza del colore ma come fondamento di questo: abbiamo così una luminosità forte, ma mai accecante, cioè tale da far emergere masse (di colore) mai casuali o caotiche bensì sempre allineate tra di esse, con quelle pennellate “parallele” che creano ritmi armonici e “ripetizioni differenti”, come in una musica di un moderno “bolero” o di un barocco “contrappunto”.
Talvolta Pingitore, quasi a sottolineare quel primo termine caratterizzante la mostra, “astrazione”, sovrappone alle sue composizioni pittoriche una o più figure geometriche regolari, quali dei quadrati o una corona circolare, proprio per non fare perdere di vista – nel senso anche della fisica ottica – il suo fondamento geometrico (dell’astrattismo) anche se nascosto nel profondo che, come per altre cose della psiche umana, può riaffiorare.
Ma se con la “fluidità” indichiamo una pittura sì “densa”, “concreta” ma “mobile, “fluttuante”, allora la pittura di Pingitore si articola nel tempo, un tempo che, come il movimento, scorre, passa senza possibilità di ritorno: si pensi al “fiume” famoso di Eraclito, nel quale “non possiamo bagnarci due volte”, proprio perché l’acqua del fiume , scorrendo, non è mai la stessa, quindi anche il fiume, sebbene abbia sempre lo stesso nome, è sempre diverso.
Così il movimento appare continuo e uniforme e, per altri versi (colore, verticalità, vettorialità), ci ricorda il boccioniano Quelli che restano, uno degli Addii, ovviamente con tutte le necessarie differenze a cento anni di distanza.
Il movimento è “tempo”, ché anche questo, almeno quello della “freccia”, corre inesorabile senza potersi volgersi indietro; qui, nei quadri che stiamo esaminando, è scandito dallo scorrere dei “segni”, dalla mutevolezza delle atmosfere, dall’andare, non sappiamo dove (l’artista non può dircelo, non è un profeta, può solo porre dei problemi che sta all’osservatore risolvere soggettivamente). Allora, se in certi lavori la scansione del movimento è costante e incessante, in altri sembra che Pingitore si fermi un attimo, per “godere” quel tempo bergsoniano, cioè quel tempo interiore che ci fa apparire, a seconda delle condizioni, molte ore un attimo, e un attimo una durata senza fine: qui l’opera si offre come possibilità di equilibrio, di calma, di atmosfera rasserenante, con suggerimenti quasi lirici.
Ed ancora: dopo Einstein sappiamo che non possiamo parlare di movimento e di tempo senza parlare anche di spazio. Per questo, se ogni segno e colore su una tela bianca realizza un’ipotesi di spazio, qui nel nostro autore gli spazi sono plurali, sia come costruzione complessa sia come evocazione.
Naturalmente si parla di spazi fisici, posseduti dal patrimonio visivo di ciascuno, dalle sue memorie,
dalle sue esperienze vissute: ecco che appaiono cieli iperuranei, visioni abissali profonde, spazi marini o desertici, nebbie, insomma spazi fisici e reali non ben definiti, “sfumati”, appunto “fluidi”. Non dimenticando che stiamo parlando di pittura, va sottolineato che è proprio la composizione, il tipo di colore, lo scorrere del pennello che ci danno questa fluidità, essendo sempre fluenti, scorrevoli, finanche liquidi.
Forse i giovani, possessori di un archivio di immagini differente da quello degli anziani, potranno, più prosaicamente, cogliere nel movimento “tremolante” dei segni di Pingitore, l’immagine di uno schermo di computer o di televisione che ha preso un virus o ha perduto il segnale, sul quale appunto appaiono segni in movimento senza senso apparente, ma in realtà significanti un significato preciso.
Abbiamo visto che la parola “astrazione” per le opere di Pingitore è assai appropriato anche se queste sono “formalmente” lontane dall’astrattismo geometrico di cui, però, hanno recepito a fondo gli insegnamenti.
In tal modo, ora, possiamo anche dire che Pingitore spesso si dimostra lirico. L’astrattismo lirico era l’altro grande filone della pittura aniconica della prima metà del secolo XX, la cui figura principale era Kandinskij. Orbene, col maestro russo Pingitore ha poco a che fare, per quel che riguarda le forme e lo stile, ma ha una consonanza nel voler esprimere emozioni (l’astrazione di Mondrian, pur non essendo “algida” come può apparire, era fortemente segnata dalla razionalità e dal Super-Io). Così i colori assumono la loro funzione: il rosso è più passionale, il celeste è calmo, l’azzurro è sereno e così via: la composizione degli spazi, a sua volta, indica la sensibilità di base, ora più mossa ora più misurata, più contrastante o più pacificata.
Per finire, possiamo affermare che questa fase matura della pittura di Pingitore, coincidente anche con la sua maturità anagrafica, è carica, pur nella sua completa definitezza espressiva, di possibilità ulteriori, così che, come nelle sue opere abbiamo un movimento rettilineo uniforme, gli sviluppi della sua arte lo avranno altrettanto; ché l’artista non può mai finire la sua ricerca – che è la sua vita stessa – e non riesce mai, se è un vero artista, a fare l’ultimo quadro.
Giorgio Bonomi
2018, Luigi Polillo. Testo Il suono dell'anima
IL SUONO DELL’ANIMA
Con autenticità e forza creativa, si collocano nell’odierna omologazione della pittura del XXI secolo gli astratti fluidi di Pino Pingitore; l’artista crea, dopo una quarantennale ricerca artistica, dagli anni Duemila in poi, un nuovo linguaggio espressivo. Leggi ancora ...
Per il concepimento dell’opera dell’autore, la luce diviene un elemento caratterizzante, la tavolozza a volte è ridotta a pochi colori, essenziali per il raggiungimento di una composizione cupa, ammaliante ed enigmatica, in altre, invece, si sviluppa con diverse varianti stilistiche, ma in entrambi i casi l’occhio umano evade dalla realtà, si smarrisce tra le fluttuanti linee e le piacevoli gradazioni cromatiche, percorrendo un vero e proprio viaggio psichedelico. Con rigore geometrico, l’artista disegna la propria struttura, si serve del presente, cioè degli innovativi strumenti digitali con il personal “Computer” e attraverso la competenza della pittura ad olio, dissolve, con la tecnica dello sfumato, il proprio scenario, sollecitando l’anima del fruitore. “Senza linea né confine, alla maniera del fumo.” È così che Leonardo definiva la tecnica quattrocentesca dello sfumato. Negli astratti fluidi non si riconosce nessun oggetto o scena, essi sono costituiti da forme, colori e linee che esprimono puramente un valore espressivo-concettuale. Wàssily Kandinsky, nel trattato del 1909 "Lo spirituale nell'arte", nel paragrafo “Linguaggio delle forme e dei colori” scrive: “…La sottigliezza o la grossezza di una linea, la collocazione di una forma sulla superficie, l’intersecarsi di due forme sono l’esempio di come possa ampliare lo spazio col disegno. Anche il colore, correttamente usato, può muoversi verso lo spettatore o allontanarsene, protendersi o ritrarsi, e fare del quadro una cosa sospesa nell’aria, dilatando pittoricamente lo spazio. L’unione, armoniosa o contrastata, di questi due modi di dilatare lo spazio, è uno dei punti di forza del disegno e della pittura…” L’astrazione fluida di Pino Pingitore è “un’espressione artistica, basata sul colore e sulla musicalità, con la quale si vive un contatto diretto con l’anima tra l’armonia e la dissonanza dei colori” è generata dalla s-digitalizzazione dell’estetica del frammento, la nozione di spazio è annullata dall’infinita scala cromatica legata al suo processo creativo; relativamente al processo esecutivo, invece l’artista, soprattutto durante le prime fasi del procedimento, complice del suono, elabora ed amplia il frammento digitale riportandolo con maestria sulla tela che diverrà un unicum nel suo complesso. Tramite le precedenti sperimentazioni tecniche-artistiche, Pino Pingitore raggiunge una maturità profonda ed elegante; “gli astratti fluidi si inseriscono in una rivoluzione identitaria dell’arte, connessa ai nuovi mezzi di comunicazione di massa.” “La creazione artistica, in ogni sua espressione, diviene un’esigenza esistenziale dell’individuo”. L’artista, con il suo operato, si fa portatore di un importante concetto etico, cioè quello del disagio e dell’opulenza dell’individuo; in questo momento storico-sociale di mutamento, poco comprensibile, l’arte, più che mai è intesa come armonia delle cose e come momento di riflessione per l’uomo, ci stimola a farci delle domande e a riflettere sempre più sul concetto di trasmissione di “bellezza”; una prassi esistenziale per ogni uomo, lo sviluppo di un atteggiamento mentale dell’artista in rapporto al curatore, difatti, tutti coloro che scelgono di rappresentare un artista/autore (uomini/donne dotati di un sapiente talento, che attraverso il concepimento di opere/manufatti, sono interpreti della comunità), dovrebbero, in primis, cercare di capire o in parte scoprire la loro anima e vivere un rapporto diretto con essi; scoprire la loro anima dannata, violata, incompresa, esuberante o semplicemente geniale, per poi trasmettere e affermare con la dovuta considerazione, le loro “creazioni” nella collettività; solo dopo aver vissuto e assimilato tutto ciò, si può tentare (sempre in maniera umile ed inevitabilmente emozionale) di parlare o spiegare l’arte. Spiegare l’arte non è cosa semplice, forse è impossibile. L’uomo quindi si assume la responsabilità e al contempo anche la necessità di rappresentare un artista, e/o un movimento artistico, con la consapevolezza di rappresentare un’espressione di sé e della società odierna in cui esso si rispecchia, solo allora, forse vi è il “riconoscimento materiale e spirituale dell’opera d’arte” come messaggio comunicativo e come espressione umana trasmissibile nel tempo. Luigi Polillo